Danno ambientale e Tribunali di merito

Pubblicato il 10-12-2018
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A cura dell’avv. Laura Greco

Con la sentenza n. 2663/2018 pubblicata in data 10/10/2018, i Giudici della Terza Sezione Civile del Tribunale di Bologna hanno accolto la richiesta risarcitoria ex art. 311 D.lgs n. 152/2006 avanzata dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Mare e del Territorio nei confronti della società Enel Green Power, (di seguito EGP), per i danni da quest’ultima cagionati in qualità di gestore della Diga di Riolunato (MO), per effetto delle operazioni di svaso effettuate tra il dicembre 2010 e l’aprile 2011 in maniera illegittima.

I Giudici, conformandosi a quanto risultato dalla CTU disposta, hanno ritenuto che la società convenuta non avesse rispettato le modalità esecutive previste dal Progetto di Gestione e salvaguardia dell’ambiente fluviale in nessuno degli svasi effettuati e che ciò avesse cagionato un danno ambientale; in brevis, per queste ragioni, hanno quindi condannato la società EGP, per quanto qui interessa, all’adozione delle misure di riparazione primaria e compensativa del danno ambientale prodotto; i Giudici hanno inoltre statuito che, nella denegata ipotesi in cui l’adozione di tali misure dovesse risultare in tutto o in parte omessa, o realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, “la società convenuta è condannata, sin d’ora, a versare all’attrice, a titolo risarcitorio, la somma di euro 381.436,80, oltre rivalutazione monetaria dalla data della presente sentenza all’eventuale data di esigibilità.”

Le indicate misure riparatorie sono individuate in base a quanto stabilito nell’Allegato 3 alla parte VI del D.lgs 152/2006 che per misure di riparazione primaria intende “qualsiasi misura di riparazione che riporta le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle o verso le condizioni originarie”; mentre, per misure di riparazione compensativa “qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita temporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo”.

Se lo scopo della riparazione del danno ambientale, in relazione all’acqua o alle specie e agli habitat naturali protetti, è quello di riportare l’ambiente danneggiato alle condizioni originarie, questo può essere principalmente perseguito mediante l’adozione delle misure primarie; soltanto nella denegata ipotesi in cui quest’ultime non raggiungano tale obiettivo, devono essere adottate le misure di riparazione complementare.

Finalità della riparazione complementare è infatti: “ottenere, se opportuno anche in un sito alternativo, un livello di risorse naturali e/o servizi analogo a quello che si sarebbe ottenuto se il sito danneggiato fosse tornato alle condizioni originarie. Laddove possibile e opportuno, il sito alternativo dovrebbe essere geograficamente collegato al sito danneggiato, tenuto conto degli interessi della popolazione colpita”.

Diversamente, le misure di riparazione compensativa sono rappresentate da “qualsiasi azione intrapresa per compensare la perdita temporanea di risorse e/o servizi naturali dalla data del verificarsi del danno fino a quando la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo”; tali misure vengono avviate “ per compensare la perdita temporanea di risorse naturali e servizi in attesa del ripristino. La compensazione consiste in ulteriori miglioramenti alle specie e agli habitat naturali protetti o alle acque nel sito danneggiato o in un sito alternativo. Essa non e’ una compensazione finanziaria al pubblico.”

La sentenza in esame è rilevante per l’interessante e accurato excursus normativo, in materia ambientale, che i Giudici svolgono per meglio spiegare come hanno inteso applicare l’art. 311 D.lgs 152/2006 nel caso de quo, sposando la tesi avanzata dal Parte Attrice.

La legge n. 349 del 1986, istitutiva del Ministero dell’Ambiente e della tutela del Mare e del Territorio, all’art. 18, aveva previsto la responsabilità per danno ambientale per la prima volta nel nostro Ordinamento.

In caso di danno ambientale quindi, il richiamato art. 18 contemplava due modalità di valutazione e calcolo dell’obbligo risarcitorio: il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile e – in caso di impossibile quantificazione del danno – la determinazione dell’ammontare in via equitativa.

La crescente attenzione verso le problematiche ambientali e l’esigenza di armonizzare le discipline nazionali in materia, ha condotto il Parlamento ed il Consiglio dell’Unione Europea ad emanare la Direttiva 2004/35/CE del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. La Direttiva indicata rappresenta una pietra miliare in materia ambientale in quanto ha stabilito che “la prevenzione e la riparazione del danno ambientale dovrebbero essere attuate applicando il principio “chi inquina paga”, quale stabilito nel trattato e coerentemente con il principio dello sviluppo sostenibile.”

L’Italia ha recepito la predetta Direttiva per il tramite della Parte Sesta del D.lgs n. 152/2006, ossia del Codice dell’Ambiente. Tuttavia, inizialmente, il testo originario del Codice si è rivelato piuttosto poco soddisfacente per due ordini di ragioni: in primis, il criterio di imputazione della responsabilità, che in ossequio al dictum della Direttiva sarebbe dovuto essere di tipo oggettivo, faceva invece riferimento a una responsabilità a titolo di colpa ex art. 311, 2° comma; in secundis, vi erano diverse norme che paventano la possibilità del risarcimento per equivalente patrimoniale, vietato dal Legislatore Europeo.

Atteso quanto sopra, per questi motivi, la Commissione Europea ha intrapreso due procedure d’infrazione nei confronti del Governo Italiano nel 2008 e nel 2012 e, di conseguenza, il Legislatore Italiano si è visto costretto ad intervenire in modo da adeguare il diritto interno con il diritto comunitario. Nello specifico, dapprima l’art. 5 bis della L. del 20.11.2009 n. 166 e, successivamente, l’art. 25 della L. del 06.08.2013 n. 97, hanno espunto dal Codice dell’Ambiente la possibilità che il danno all’ambiente possa essere risarcito per equivalente patrimoniale, consacrando la sua riparazione, esclusivamente, alle misure di riparazione, primaria, secondaria e compensativa.

L’art. 311 comma 2, come da ultimo modificato, prevede anche che “Solo quando l’adozione delle misure di riparazione anzidette risulti in tutto o in parte omessa, o comunque realizzata in modo incompleto o difforme dai termini e modalità prescritti, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare determina i costi delle attività necessarie a conseguirne la completa e corretta attuazione e agisce nei confronti del soggetto obbligato per ottenere il pagamento delle somme corrispondenti.”

Si precisa inoltre l’efficacia retroattiva del Codice dell’Ambiente, nello specifico dei criteri ex art. 311, così come definiti, con il solo limite delle sentenze passate in giudicato, anche per quei giudizi pendenti proposti ai sensi dell’art. 18 della L. 349/1986 e/o ex art. 2043 c.c.

I Giudici, che hanno emesso la sentenza in esame, disponendo la condanna della Società EGP al risarcimento del danno ambientale in primis in forma specifica, hanno quindi avallato l’orientamento costante della Giurisprudenza di legittimità (Cass. 22382/2012, 9012, 9013, 16806 e 16807 del 2015 e 14935 del 2016, 8662 del 2017).

Nel delineato contesto, è evidente che nel nostro Ordinamento vige il principio che il risarcimento del danno ambientale debba avvenire in forma specifica e solo laddove ciò non sia possibile, si possa disporre il risarcimento del danno per equivalente patrimoniale, come extrema ratio.

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