Nuovo passo avanti della Cassazione in tema di risarcimento del danno dalla pubblica amministrazione

Pubblicato il 23-06-2017
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A cura dell’Avv. Xavier Santiapichi

Segnaliamo la recente decisione della Suprema Corte che ha affermato il principio secondo il quale se la realizzazione di una infrastruttura produce danno indiretto per i privati, questo danno deve essere risarcito.

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Il ragionamento seguito dalla Corte trae spunto dall’art. 46 della l. del 1865 sull’espropriazione e non è ricollegabile ad un fatto illecito (quindi ad un provvedimento illegittimo), ma ad un’attività lecita della Pubblica Amministrazione, consistente nell’esecuzione di un’opera pubblica che comporti direttamente l’imposizione di una servitù o la produzione di un danno di carattere permanente all’altrui proprietà; esso – sono parole della Cassazione – “..trova fondamento in un principio di giustizia distributiva, per cui non è consentito soddisfare l’interesse generale attraverso il sacrificio del singolo senza che quest’ultimo ne sia indennizzato”.

Va precisato che la norma citata (l’art. 46) è stato da tempo abrogato; ma analoga disposizione la si ritrova nel TU delle espropriazioni vigente (art. 44 del D.Lgs. 8-6-2001 n. 325).

Va anche segnalato l’importo rilevante del danno (indennizzo) risarcito: oltre 800.000. La Corte non entra – e non potrebbe farlo – nel merito della stima, ma di fatto conferma che la determinazione dell’importo segue il pregiudizio arrecato alle caratteristiche di panoramicità, visuale, luminosità, rumorosità, inquinamento e privacy dell’immobile e va stabilita una percentuale di deprezzamento dell’immobile.

 

MINISTERO

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte Suprema di Cassazione

Sezione Prima Civile

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 21604/2011 R.G. proposto da:

COMUNE DI MESSINA, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. Giancarlo Saccà, con domicilio eletto in Roma, Via Pietro della Valle, n. 2, presso lo studio dell’Avv. Patrizia Giuffrè;

– ricorrente –

CONTRO

CONDOMINIO (OMISSIS), in persona dell’amministratore p.t. M.A., rappresentato e difeso dal Prof. Avv. Giovanni Giacobbe, con domicilio eletto in Roma, Lungotevere dei Mellini, n. 24;

– controricorrente –

avverso le sentenze della Corte d’appello di Messina n. 142/06 depositata il 16 marzo 2006 e n. 156/11 depositata il 19 marzo 2011.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 febbraio 2017 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

uditi gli Avv. Giancarlo Saccà e Giovanni Giacobbe;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SALVATO Luigi, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Il Condominio (OMISSIS) convenne in giudizio il Comune di Messina, per sentirlo condannare, ai sensi della L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 46, al pagamento di un’indennità per i danni cagionati alle unità abitative dalla costruzione di una strada limitrofa all’edificio condominiale, passante su un muro di sostegno di rilevante altezza addossato al muro di cinta, nonchè al risarcimento dei danni arrecati al muro di cinta durante l’esecuzione dei lavori.

Si costituì il Comune, e resistette alla domanda, chiedendone il rigetto.

1.1. Con sentenza del 27 maggio 2002, il Tribunale di Messina accolse la domanda, condannando il Comune al pagamento della somma di Euro 77.468,53, oltre interessi.

2. L’impugnazione proposta dal Comune è stata rigettata con sentenza non definitiva del 16 marzo 2006, con cui la Corte d’Appello di Messina ha accolto parzialmente l’appello incidentale proposto dal Condominio, condannando il Comune al pagamento della somma di Euro 51,65, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali, a titolo di risarcimento dei danni arrecati al muro di cinta.

Premesso che la strada era stata realizzata su un muro di sostegno che fiancheggiava, senza apprezzabile distacco, la proprietà condominiale, distanziandosi dall’edificio di 10 m. circa e correndo ad un’altezza variabile tra m. 0 e 7,50, la Corte ha ritenuto irrilevante la liceità del comportamento dell’Amministrazione, osservando che la L. n. 2359 del 1865, art. 46, prevede una responsabilità per attività lecita, rispondente ad una finalità solidaristica, che consiste nel ristorare il pregiudizio subito dal singolo cittadino per effetto della realizzazione di un’opera di pubblica utilità, addossandolo alla collettività.

Ciò posto, e ritenute inammissibili, in quanto generiche, le censure proposte dal Comune in ordine alla liquidazione del danno, la Corte ha accolto quelle sollevate dal Condominio: precisato infatti che l’edificio condominiale ricadeva in zona residenziale, anche se periferica, e di particolare panoramicità, ed era dotato di rifiniture eccellenti, di aree verdi e posti auto, ha ritenuto riduttiva la stima compiuta dal c.t.u., in quanto non sorretta da alcun elemento di comparazione, pur essendo stata effettuata con metodo sintetico-comparativo. Ha ritenuto altresì ingiustificata l’esclusione del pregiudizio derivante dalla parziale privazione di luce ed aria, del paesaggio e dell’amenità, osservando che, ai fini del riconoscimento dell’indennizzo, è sufficiente la mera menomazione di una o più facoltà del diritto di proprietà che diminuiscano il valore dell’immobile. Ha aggiunto che i coefficienti di deprezzamento adottati dal c.t.u. non tenevano conto della menomazione di godibilità conseguente alle immissioni sonore ed alla lesione della privacy, ritenendo invece irrilevante l’illegittimità urbanistica della costruzione.

2.1. Con sentenza definitiva del 29 marzo 2011, la Corte d’Appello ha poi rideterminato in Euro 668.256,50, oltre rivalutazione monetaria dal 27 gennaio 2000 ed interessi, l’indennizzo dovuto per il deprezzamento delle unità abitative.

A fondamento della decisione, la Corte ha richiamato la relazione del c.t.u. nominato in sostituzione di quello originario, osservando che egli aveva risposto esaurientemente ai quesiti sottopostigli, stimando il valore dei vari piani dell’edificio con una pluralità di metodi, determinando il deprezzamento sulla base dei pregiudizi arrecati alla panoramicità ed alla visuale, del livello d’intensità lieve della rumorosità, dell’inquinamento da gas di scarico, della riduzione di luminosità e della violazione della privacy, e liquidando l’indennizzo in misura differenziata per i vari piani, nonchè in misura complessiva pari al 9,34% del valore dell’intero complesso edilizio. Precisato che l’indennizzo doveva essere ripartito tra i condomini tenendo conto delle percentuali indicate dal c.t.u., la Corte ha ritenuto infine che, trattandosi di debito di valore, era dovuta anche la rivalutazione monetaria, dal 27 gennaio 2000 alla pubblicazione della sentenza.

3. Avverso la predetta sentenza il Comune ha proposto ricorso per cassazione, articolato in dieci motivi, illustrati anche con memoria. Il Condominio ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.

 Motivi della decisione

1. Preliminarmente, va disattesa l’eccezione d’inammissibilità del ricorso per cassazione, sollevata dalla difesa del Condominio in relazione alla mancata enunciazione del quesito di diritto prescritto dall’art. 366-bis c.p.c., a corredo dei motivi d’impugnazione riguardanti la sentenza non definitiva.

E’ pur vero, infatti, che l’abrogazione della predetta disposizione, disposta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), si applica, ai sensi dell’art. 58, comma 5, alle sole controversie nelle quali il provvedimento impugnato sia stato pubblicato in data successiva all’entrata in vigore della medesima legge: qualora peraltro, come nella specie, una sentenza non definitiva, pubblicata tra il 2 marzo 2006 ed il 4 luglio 2009, venga impugnata, in virtù della riserva formulata ai sensi dell’art. 361 c.p.c., congiuntamente a quella che abbia definito il giudizio, l’avvenuta pubblicazione di quest’ultima in epoca successiva alla predetta data consente di escludere l’applicabilità dell’art. 366-bis cit.. Il riferimento alla “pubblicazione”, contenuto nell’art. 58, comma 1, cit., è infatti funzionale alla individuazione della disciplina applicabile all’impugnazione, che dipende dal momento a decorrere dal quale la stessa può essere proposta, il cui differimento alla pubblicazione della sentenza definitiva, per effetto della formulazione della riserva, comporta che la sentenza non definitiva si intende convenzionalmente pronunciata nella stessa data, come parte della statuizione sull’intera controversia (cfr. Cass., Sez. 3, 9/04/2014, n. 8272; Cass., Sez. 1, 9/01/2013, n. 343).

2. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 81, 99 e 100 c.p.c., L. n. 2359 del 1865, art. 46 e dell’art. 832 c.c. e art. 1130 c.c., n. 4, osservando che, a sostegno della domanda, sono stati fatti valere da un lato i danni arrecati al muro condominiale, dall’altro quelli subiti dai singoli appartamenti, in ordine ai quali il Condominio era privo di legittimazione ad agire, trattandosi d’immobili di proprietà dei singoli condomini. Nel riconoscere il danno derivante dall’eventuale lancio di oggetti dalla strada, la Corte di merito ha unificato quello riguardante lo spiazzo condominiale con quello arrecato ai singoli appartamenti, omettendo inoltre di accertare se i condomini in favore dei quali ha disposto la ripartizione dell’indennizzo fossero quelli titolari dei singoli appartamenti all’epoca della costruzione dell’opera pubblica.

2.1. Il motivo è inammissibile.

Pur muovendo dalla prospettazione dei fatti contenuta nell’atto introduttivo del giudizio primo grado, la censura proposta dall’Amministrazione non ha ad oggetto il riconoscimento al Condominio della facoltà di agire in nome proprio a tutela di un diritto dichiaratamente spettante ai singoli condomini, neppure menzionati nella citazione, ma, distinguendo tra il diritto sulle parti comuni dell’edificio e quelli sulle singole unità immobiliari, investe direttamente l’identificazione dell’attore quale titolare del diritto pregiudicato dalla realizzazione dell’opera pubblica: essa, pertanto, non si riferisce alla legitimatio ad causam, ma alla titolarità del diritto controverso, il cui difetto non è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, in quanto incidente sulla legittima instaurazione del contraddittorio, ma, attenendo al merito della controversia, dà luogo ad una questione rimessa alla disponibilità delle parti, e non può quindi essere fatto valere in questa sede, risultando coperto dal giudicato interno formatosi per effetto della mancata impugnazione della sentenza di primo grado, nella parte in cui ha riconosciuto al Condominio il diritto all’indennizzo anche per il pregiudizio subito dalle singole unità immobiliari (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. lav., 12/08/2016, n. 17092; Cass., Sez. 3, 14/02/2012, n. 2091; 18/11/2005, n. 24457).

3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. e degli artt. 1362, 1363, 1365 e 1367 c.c., censurando la sentenza non definitiva per aver omesso di pronunciare in ordine alla sussistenza del diritto all’indennizzo, a causa del fraintendimento del tenore letterale e del contenuto sostanziale dell’appello, non avente ad oggetto esclusivamente la funzione ordinamentale della L. n. 2359 del 1865, art. 46.

3.1. Il motivo è infondato.

La natura processuale del vizio lamentato consente di procedere all’esame diretto dell’atto di appello, dal quale si evince che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la sussistenza del diritto all’indennizzo era stata contestata esclusivamente in virtù dell’affermata riconducibilità del pregiudizio ad un comportamento lecito dall’Amministrazione e dell’estraneità della fattispecie all’ambito applicativo della L. n. 2359 del 1865, art. 46, in considerazione dell’incidenza dell’opera pubblica sulle caratteristiche di amenità e panoramicità dell’immobile, asseritamente non tutelate dalla predetta disposizione. In ordine alla prima censura, la sentenza impugnata ha correttamente richiamato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la responsabilità prevista dall’art. 46 cit., non è ricollegabile ad un fatto illecito, ma ad un’attività lecita della Pubblica Amministrazione, consistente nell’esecuzione di un’opera pubblica che comporti direttamente l’imposizione di una servitù o la produzione di un danno di carattere permanente all’altrui proprietà, e trova fondamento in un principio di giustizia distributiva, per cui non è consentito soddisfare l’interesse generale attraverso il sacrificio del singolo senza che quest’ultimo ne sia indennizzato (cfr. Cass., sez. Un., 26/06/2003, n. 10163; 11/06/2003, n. 9341; Cass., Sez. 1, 9/03/2004, n. 4720). La seconda censura, effettivamente non riportata tra quelle sollevate dall’appellante, non attingeva invece la ratio decidendi della sentenza di primo grado, la quale, nel procedere alla liquidazione dell’indennizzo, aveva espressamente escluso la possibilità di prendere in considerazione il peggioramento delle caratteristiche di panoramicità, amenità e soleggiamento dell’edificio, tanto da indurre il Condominio a proporre, sul punto, appello incidentale. In relazione a tale censura, non è pertanto configurabile il vizio di omessa pronuncia, trattandosi di un motivo inammissibile, in quanto non pertinente alla decisione, e quindi inidoneo a far sorgere a carico del Giudice di appello il dovere di pronunciare nel merito della questione (cfr. Cass., Sez. 6, 2/12/2010, n. 24445; Cass., Sez. 2, 5/03/2010, n. 5435; Cass., Sez. 1, 25/05/2006, n. 12412).

4. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., censurando la sentenza non definitiva per aver ritenuto generico il motivo di gravame riflettente l’inadeguatezza e l’eccessività della percentuale di deprezzamento dell’edificio indicata dal c.t.u. e posta fondamento della decisione di primo grado.

4.1. Il motivo è infondato.

Affinchè un capo di sentenza possa ritenersi validamente impugnato, non è infatti sufficiente che l’atto di appello contenga una manifestazione di volontà in tal senso, occorrendo invece che ciascun motivo di gravame sia caratterizzato da una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa ed articolata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico (cfr. Cass., Sez. Un., 9/11/2011, n. 23299; Cass., Sez. 3, 15/06/2016, n. 12280; Cass., Sez. 6, 22/09/2015, n. 18704). Tale corredo argomentativo risulta del tutto assente nelle censure mosse dall’appellante alla percentuale di deprezzamento individuata dal Giudice di primo grado, le quali, risolvendosi nell’apodittica affermazione dell’inadeguatezza e dell’eccessività dell’apprezzamento emergente dalla sentenza impugnata, non accompagnata dall’illustrazione dei profili d’inidoneità dei criteri adottati o dall’indicazione dei diversi parametri da porre a fondamento della valutazione, non consentono di cogliere le ragioni per cui quest’ultima era ritenuta non condivisibile dall’appellante.

5. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., censurando la sentenza non definitiva per aver omesso di esaminare i motivi di gravame riguardanti la sussistenza del diritto all’indennizzo, la liquidazione del relativo importo e l’obbligo di corrispondere gl’interessi.

5.1. Il motivo è infondato.

Richiamato quanto già detto in ordine ai presupposti per il riconoscimento dell’indennizzo ed all’adeguatezza dell’importo liquidato, che hanno costituito comunque oggetto di un rinnovato apprezzamento in sede di esame dell’appello incidentale proposto dal Condominio, si osserva che, indipendentemente dalle generiche modalità di articolazione, anch’esse limitate alla mera contestazione della decisione adottata dal Giudice di primo grado, la censura riguardante gl’interessi è rimasta assorbita dall’accoglimento dell’appello incidentale, che, in quanto tradottosi in una nuova liquidazione dell’indennizzo, ha comportato, ai sensi dell’art. 336 c.p.c., la caducazione della predetta statuizione, sostituita da quella della sentenza definitiva di secondo grado. Ciò è sufficiente ad escludere la sussistenza del vizio di omessa pronuncia, che, in quanto configurabile soltanto in mancanza di una decisione in ordine ad una domanda ritualmente proposta, che richieda una pronuncia di accoglimento o rigetto, non ricorre nel caso in cui, come nella specie, la relativa questione debba ritenersi esplicitamente o implicitamente assorbita in altre statuizioni della sentenza impugnata (cfr. Cass., Sez. lav., 26/01/2016, n. 1360; Cass., Sez. 5, 20/02/2015, n. 3417; Cass., Sez. 3, 19/05/2006, n. 11756).

6. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce l’omessa o insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che, nel riconoscere il diritto all’indennizzo, la sentenza non definitiva non ha considerato che esso presuppone un’effettiva riduzione della godibilità dello immobile e/o la menomazione, la diminuzione o la perdita di una o più facoltà (non marginali) del diritto dominicale. In quanto consistenti nella diminuzione della visuale, del panorama, dell’amenità e del soleggiamento, nonchè in rumori e perdita della privacy, i pregiudizi presi in considerazione dal c.t.u. riguardavano facoltà estranee al predetto diritto, non comportavano una riduzione del valore dell’immobile, per diminuzione della capacità abitativa o per intollerabilità delle immissioni, e non erano comunque imputabili all’utilizzazione dell’opera pubblica secondo la funzione cui era destinata.

7. Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 823, 1027, 1031, 1061 e 1062 c.c. e della L. n. 2359 del 1865, art. 46, sostenendo che, in quanto accertato e quantificato in relazione all’altezza di piano di ciascun appartamento, il pregiudizio liquidato dalla Corte di merito riguarda la panoramicità e l’amenità del sito, la cui tutela è subordinata alla titolarità di una servitus altius non tollendi o all’imposizione di un vincolo paesistico, nella specie insussistenti.

8. Con l’ottavo motivo, il ricorrente deduce, sempre in via subordinata, la violazione e la falsa applicazione della L. n. 2359 del 1865, art. 46, artt. 844 e 2697 c.c. e del D.P.C.M. 1 marzo 1991, nonchè l’omessa o insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sostenendo che, nell’accogliere l’appello incidentale del Condominio, la Corte di merito ha omesso di verificare se il pregiudizio determinato dall’opera pubblica fosse effettivo, investisse il nucleo essenziale del diritto dominicale e fosse tale da comportarne un’apprezzabile compressione o riduzione, nonchè se fosse ricollegabile all’utilizzazione dell’opera secondo la funzione cui è destinata. Afferma infatti che il pregiudizio cui si riferisce l’art. 46 cit., non può riguardare quelle utilità marginali che non trovano tutela come diritti autonomi o come attributi caratteristici del diritto di proprietà, quali l’insolazione l’aerazione, l’ampiezza della veduta panoramica, ma deve consistere in una riduzione della capacità abitativa o nella compressione derivante da immissioni di rumori, vibrazioni o gas di scarico che per la loro continuità ed intensità superino i limiti della normale tollerabilità.

9. I predetti motivi vanno esaminati congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto la comune problematica riguardante l’individuazione del pregiudizio indennizzabile ai sensi della L. n. 2359 del 1865, art. 46.

In proposito, la sentenza non definitiva ha richiamato il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il riconoscimento dello indennizzo previsto dalla L. n. 2359 del 1865, art. 46, postula l’accertamento di un nesso eziologico tra la realizzazione di un’opera pubblica e la compromissione del valore di un immobile, per la cui sussistenza è necessario che l’esecuzione e la presenza dell’opera, ovvero l’utilizzazione della stessa in conformità della funzione per la quale è stata progettata e realizzata, si configurino come causa diretta ed immediata della menomazione di una o più facoltà (non marginali) che costituiscono il contenuto del diritto dominicale, tra le quali, ove si tratti di un appartamento, va compresa anche la godibilità dello stesso nella sua destinazione abitativa, la cui riduzione produce indubbiamente riflessi negativi sul prezzo di mercato (cfr. Cass., Sez. 1, 9/09/2004, n. 18172).

A sostegno delle proprie censure, il ricorrente invoca invece alcune pronunce di questa Corte che, nel definire meglio la natura del pregiudizio idoneo a legittimare il riconoscimento dell’indennizzo, hanno affermato che quest’ultimo spetta soltanto se l’opera pubblica abbia determinato un’apprezzabile compromissione o riduzione del diritto di proprietà inciso, precisando che ciò non accade ove siano interessate soltanto quelle utilità marginali che non trovano tutela nell’ordinamento come diritti soggettivi autonomi o come attributi caratteristici e qualificanti del diritto di proprietà (quali l’insolazione, l’areazione, l’ampiezza della veduta panoramica), mentre può verificarsi nel caso di riduzione della capacità abitativa o di pregiudizio derivante da immissioni di rumori, vibrazioni, gas di scarico e simili, purchè le stesse, per la loro continuità ed intensità, superino i limiti della normale tollerabilità, da apprezzarsi secondo i criteri posti dall’art. 844 c.c. (cfr. Cass., Sez. 1, 17/07/2012, n. 12213; 14/12/2007, n. 26261; Cass., Sez. 3, 3/07/2008, n. 18226).

Quest’ultima affermazione ha costituito peraltro oggetto di rimeditazione ad opera di una più recente pronuncia, la quale, nel confermare la pertinenza del riferimento all’art. 844 c.c., a fronte d’immissioni derivanti dalla vicinanza e dall’utilizzazione dell’opera pubblica, ha ritenuto che l’applicabilità della L. n. 2359 del 1865, art. 46, non possa essere esclusa neppure nelle situazioni in cui, pur in mancanza d’immissioni in senso stretto, la presenza dell’opera pubblica provochi di per sè una limitazione delle facoltà di godimento da parte del proprietario per la riduzione di luce, aria e veduta dell’immobile. Premesso che la posizione soggettiva cui si deve avere riguardo non è quella del proprietario rispetto alla pubblica strada o allo spazio aereo che circonda la propria abitazione, ma quella che deriva dal rapporto tra lo stesso soggetto e l’immobile di sua proprietà, si è osservato che, per effetto della legittima costruzione di un’opera pubblica, il proprietario può ben essere privato di utilità che, lungi dall’essere “marginali”, ineriscono giuridicamente al contenuto intrinseco della sua proprietà, quali la luminosità, la panoramicità e, in definitiva, la godibilità dell’immobile, con conseguente diminuzione della capacità abitativa, che si traduce in una riduzione dell’appetibilità e quindi del suo potenziale valore commerciale. Si è quindi riconosciuto che la privazione di queste utilità o facoltà da parte della Pubblica Amministrazione, determinando una diminuzione o comunque una ridotta possibilità di esercizio del diritto di proprietà (secondo la terminologia adottata dall’art. 46 cit., ed oggi dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 327, art. 44), con conseguente diminuzione del valore venale del bene, comporta l’obbligo d’indennizzare il proprietario per la perdita subita, e ciò proprio in virtù del richiamato principio di giustizia distributiva, desumibile dall’art. 42 Cost., il quale esige che le conseguenze economiche pregiudizievoli causate da opere dirette al conseguimento di vantaggi pubblici non ricadano su un solo privato o su una ristretta cerchia di privati, ma siano sopportate dall’intera collettività (cfr. Cass., Sez. 1, 3/07/2013, n. 16619; v. anche in motivazione, Cass., Sez. 3, 3/07/2014, n. 15223).

9.1. Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto ingiustificata l’esclusione, ad opera della sentenza di primo grado, dell’indennizzabilità del pregiudizio derivante dalla privazione di luce ed aria, dell’amenità e della panoramicità dell’edificio condominiale, reputando irrilevante la circostanza che alcuni di tali interessi non siano direttamente tutelati e possano essere pregiudicati a seguito di edificazione privata, in quanto ai fini dell’applicabilità della L. n. 2359 del 1865, art. 46, non viene necessariamente in considerazione la violazione delle distanze legali o l’illegittimità urbanistica dell’opera, fonte, per altro verso, di responsabilità a carico di chi l’abbia realizzata.

Non può condividersi, in contrario, il richiamo del ricorrente al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che, in tema di diritti reali, esclude l’autonoma tutelabilità della situazione di fatto derivante dalla bellezza dell’ambiente e dalla visuale che si gode da un certo sito, subordinando la possibilità di far valere la panoramicità e l’amenità del luogo all’applicabilità delle norme in materia di distanze o alla titolarità di una servitus altius non tollendi (cfr. Cass., Sez. 2, 27/02/2012, n. 2973; 13/02/1999, n. 1206; 20/10/1997, n. 10250): l’inosservanza delle distanze o la violazione di una servitù, configurandosi come fatti illeciti, generatori di obbligazioni risarcitorie, esulano infatti dall’ambito applicativo dell’art. 46, che contempla, come si è detto, un’ipotesi di responsabilità per atto lecito.

Quanto infine al lamentato riconoscimento dell’indennizzo per il danno derivante dal lancio di oggetti dalla sede stradale nel sottostante cortile condominiale, la contrarietà di tale comportamento ad elementari regole di civiltà non consente di escluderne la riconducibilità all’utilizzazione di questa ultima in conformità della funzione cui è destinata, tenuto conto dell’apertura della strada al pubblico transito e del conseguente dovere dell’Amministrazione di adottare le cautele necessarie per la salvaguardia dell’incolumità e dei beni dei proprietari dei fondi contigui.

10. Con il settimo motivo, il ricorrente denuncia, in via subordinata, la contraddittorietà della motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, rilevando che, nel ritenere priva di riscontri la stima del primo c.t.u., la Corte di merito non ha tenuto conto del richiamo dello stesso alle informazioni raccolte presso operatori ed uffici ed al prezzo previsto da un atto di vendita di un appartamento sito nel medesimo fabbricato, da lui aggiornato ed opportunamente incrementato per tenere conto dell’evasione fiscale. Nel recepire la stima compiuta dal secondo c.t.u., la sentenza definitiva ha omesso di rilevare che anch’essa risultava priva di elementi di supporto, richiamando genericamente indagini di mercato e facendo riferimento, ai fini dell’utilizzazione del metodo analitico, ad una rata di affitto mensile anch’essa priva di concreto riscontro.

10.1. Il motivo è in parte infondato, in parte inammissibile.

Come si evince dalla sentenza impugnata, la liquidazione del maggior indennizzo riconosciuto al Condominio costituisce il risultato non tanto della rideterminazione del valore di mercato dell’edificio condominiale, in ordine al quale la Corte di merito ha rilevato che la stima compiuta dal c.t.u. nominato in appello differiva di poco da quella effettuata dal c.t.u. nominato in primo grado, quanto di una diversa valutazione del pregiudizio arrecato alle caratteristiche di panoramicità, visuale, luminosità, rumorosità, inquinamento e privacy dell’immobile, per effetto della quale la sentenza impugnata è pervenuta all’individuazione di una percentuale di deprezzamento (9,34%) notevolmente superiore a quella risultante dalla sentenza di primo grado (1,19%). Nel contestare il predetto apprezzamento, il ricorrente non si cura di quest’ultimo aspetto, ma si limita ad insistere sull’attendibilità del valore di mercato stimato dal primo c.t.u., senza tener conto delle considerazioni svolte dalla sentenza impugnata, la quale ha rilevato che egli aveva omesso di rendere i chiarimenti richiestigli in ordine ai rilievi formulati dalle parti, dando invece atto della completezza delle risposte fornite dal secondo consulente ai quesiti sottopostigli e della correttezza dei metodi di valutazione da lui adottati. Il ricorrente addebita alla seconda relazione le medesime carenze che la Corte di merito ha ascritto alla prima, ponendo a confronto le rispettive risultanze, senza tuttavia essere in grado di dimostrare la correttezza tecnico-scientifica di quest’ultima, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso l’apparente deduzione del vizio di motivazione, un riesame del merito della controversia, non consentito a questa Corte, alla quale non spetta il compito di procedere ad una nuova valutazione dei fatti, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica e la coerenza logica delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata (cfr. Cass., Sez. 1, 4/11/2013, n. 24679; Cass., Sez. 5, 16/12/2011, n. 27197; Cass., Sez. 3, 9/08/2007, n. 17477).

11. Con il nono motivo, il ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione degli artt. 91 e 342 c.p.c., nonchè l’omissione o l’insufficienza della motivazione, censurando la sentenza definitiva per aver elevato l’importo delle spese processuali, nonostante la mancata specificazione nello appello incidentale delle voci che il Condominio riteneva dovute.

11.1. Il motivo non merita accoglimento, pur dovendosi procedere, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., alla correzione della motivazione della sentenza impugnata, il cui dispositivo risulta conforme al diritto.

Nel provvedere nuovamente alla liquidazione delle spese relative al giudizio di primo grado, la Corte di merito ha erroneamente richiamato il motivo di gravame incidentale formulato al riguardo dal Condominio: la rinnovazione doveva infatti aver luogo non già in accoglimento delle censure proposte dall’appellato, ma d’ufficio, per effetto della riforma della sentenza impugnata, che, ai sensi dell’art. 336 c.p.c., comportava l’automatica caducazione della stessa anche nella parte riguardante il regolamento delle spese processuali; nell’effettuazione di tale operazione, la Corte d’appello non era pertanto vincolata dalle predette censure, godendo di piena autonomia sia nella distribuzione del carico delle spese tra parti che nella quantificazione del relativo ammontare, da compiersi in base all’esito globale della lite ed al maggior valore della controversia ricollegabile alla rideterminazione dell’indennizzo (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. lav., 1/06/2016, n. 11423; Cass., Sez. 6, 18/03/2014, n. 6259; Cass., Sez. 3, 5/06/2007, n. 13059).

12. Il ricorso va pertanto rigettato, restando assorbito il decimo motivo d’impugnazione, con cui il ricorrente ha denunciato la violazione o la falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. e l’omissione o l’erroneità della motivazione, affermando che, in accoglimento dell’appello, la Corte di merito avrebbe dovuto ritenere soccombente il Condominio e condannarlo al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio.

13. Il rigetto dell’impugnazione per effetto del mutamento del quadro giurisprudenziale intervenuto in epoca successiva alla sua proposizione giustifica peraltro l’integrale compensazione delle spese processuali tra le parti.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali.

Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2017