A cura dell’Avv. Valentina Taborra
Con la recente sentenza n. 8004/2020 il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza di primo grado del Tar Puglia sulla illegittimità di un provvedimento comunale di revoca, a distanza di oltre 10 anni dalla formalizzazione, del certificato sostitutivo di una concessione di condono richiesta nel 1986, rilasciato nel 1998 e, cioè, di un provvedimento con il quale già il Comune aveva inteso rimediare alla precedente e protratta inerzia su un’istanza di condono del 1986.
La revoca sarebbe derivata, oltre che da tragici e sopravvenuti eventi alluvionali interessanti la zona, dalla sopravvenienza di vincoli sull’area e, addirittura da presunti vincoli preesistenti e mai rilevati prima dall’Amministrazione che, anzi, in giudizio, attribuisce la responsabilità dell’errore e/o mancato rilievo al privato.
L’illegittimità del provvedimento annullato dai Giudici amministrativi è supportata da diverse argomentazioni del Collegio d’Appello, sia in conformità alla sentenza di primo grado rispetto alla carenza di motivazione e di istruttoria che con riferimento all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 2017, soprattutto sul rapporto tra legittimità dell’affidamento del privato e l’esigenza di ripristino della legalità.
La carenza di istruttoria, oltre che rappresentata dal mancato rilievo di presunti vincoli preesistenti, dalla lacunosa ricostruzione dello stato di fatto nel provvedimento gravato e dalla mancanza di qualsiasi valutazione dei contrapposti interessi, è rilevata in sentenza già dall’errata qualificazione giuridica dell’atto impugnato e recante la dicitura di “revoca” (non propria dei tioli edilizi quali atti di carattere vincolato) e quindi di un particolare istituto di autotutela che, ai sensi dell’art. 21 quinquies della l. 241/1990 è caratterizzato non dall’illegittimità ma dalla inopportunità dell’atto presupposto con riferimento a sopravvenuti motivi di pubblico interesse oppure al mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento, quando poi il provvedimento “revocato” non è supportato da idonea motivazione in tal senso.
Con riferimento alla carenza di motivazione è stato infatti riaffermato il noto principio per cui, soprattutto per la natura discrezionale dell’annullamento d’ufficio ed in ragione del notevole lasso di tempo intercorso dal rilascio del titolo edilizio è essenziale che il provvedimento sia ben motivato sulla prevalenza dell’interesse pubblico alla rimozione dell’atto rispetto a quello del privato al suo mantenimento.
Proprio il lungo tempo trascorso apre infatti un altro tema affrontato dalla sentenza in commento, quello del legittimo affidamento del privato in buona fede che ha confidato sulla presunzione di legittimità di quanto assentito e mai contestato, nel caso di specie per oltre 20 anni. Ora la buona fede è il fulcro per il riconoscimento del legittimo affidamento del privato in quanto, come ben risegnalato dalla pronuncia, è incontestabile che la decorrenza del tempo, quale essa sia, non elide il potere di vigilanza e di intervento dell’Amministrazione nei confronti di un consapevole e taciuto abuso edilizio che ha natura permanente ma, nel caso di inconsapevolezza o mero errore, tale perpetuo potere amministrativo, soprattutto in caso di prolungata inerzia pubblica, deve necessariamente essere contemperato e valutato con ed alla luce delle esigenze del privato.
Ciò è quanto si evince anche dall’art. 38 del DPR 380/2001 che prevede una sorta di condono cartolare limitato a vizi del procedimento autorizzatorio i quali non possono andare a discapito del privato che, in buana fede, ha confidato sulla presunzione di legittimità di quanto assentito.
Nel caso di specie, infatti, non si è trattato della realizzazione di un abuso edilizio ma della caducazione di un titolo edilizio su cui il privato in buona fede faceva affidamento e, proprio la mancata motivazione sull’interesse pubblico prevalente ha reso illegittimo il provvedimento di annullamento del titolo edilizio. Caso diverso è, certamente, quello in cui l’Amministrazione sia indotta in errore dal privato; in tal caso, come affermato dalla citata Adunanza Plenaria del 2017, l’affidamento è sicuramente recessivo rispetto all’esigenza di ripristino della legalità. Non è, tuttavia, il caso della vicenda in commento in cui l’errore del mancato rilievo di vincoli preesistenti al rilascio del certificato di concessione edilizia è stato ascritto all’Amministrazione procedente “che non poteva appiattirsi sulle indicazioni del privato in ordine al regime giuridico di una zona del cui presidio doveva assumersi la cura”.
Rispetto invece ai vincoli sopravvenuti, conclude la sentenza che “laddove l’ostacolo derivi da atti pianificatori sopravvenuti, seppure idonei ratione materiae ad orientare in senso restrittivo e rigoroso la lettura delle indicazione pregresse, di essi non si possa tenere conto ai fini dell’esercizio dell’autotutela, che presuppone l’avvenuta individuazione e la conseguente rimozione di vizi originari dell’atto, non dei suoi potenziali contrasti con il quadro ordinamentale sopravvenuto”.
Certo è che, qualora come talvolta accaduto, si evidenzino errori o sopravvengano vincoli che non incidono tanto nel rilascio di un singolo titolo di legittimazione, quanto piuttosto nell’attività di pianificazione generale e nella tolleranza degli abusi, magari in zone in cui è rischiosa la realizzazione di un centro abitato, ad esempio per importanti problematiche idrogeologiche, è importante che venga salvaguardata l’incolumità pubblica con scelte di politica di tutela del territorio di più ampio respiro.
N. 08004/2020REG.PROV.COLL.
N. 02064/2010 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2064 del 2010, proposto dal Comune di Triggiano, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Massimo Malena, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via dei Gracchi, n. 81, successivamente dall’avvocato Stefania Miccoli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio “MassimoMalena & Associati”, in Roma, via Ovidio, n. 32,
CONTRO
la signora Margherita L’Abbate, rappresentata e difesa dagli avvocati Nicola Castellaneta e Giovanni Vittorio Nardelli, con domicilio eletto presso lo studio Alfredo e Giuseppe Placidi, in Roma, via Barnaba Tortolini, n.30,
PER LA RIFORMA
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Terza) n. 1775/2009, resa tra le parti, concernente la revoca del certificato sostitutivo di un condono, con contestuale ingiunzione a demolire.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della signora Margherita L’Abbate;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 e l’art. 4 del d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito con l. 25 giugno 2020, n. 70;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 11 novembre 2020, in collegamento da remoto in videoconferenza, il Cons. Antonella Manzione;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Il Comune di Triggiano impugna la sentenza n. 1775 del 7 luglio 2009, con la quale il T.A.R. per la Puglia ha accolto il ricorso, proposto dall’attuale parte appellata, per l’annullamento della determinazione dirigenziale n. 144 del 15 settembre 2008 di revoca del “certificato sostitutivo della concessione di condono n. 399/86”, rilasciato il 15 gennaio 1998 alla dante causa della stessa, signora Rosa Losacco, con contestuale ingiunzione a demolire il manufatto cui l’atto in questione faceva riferimento. Il giudice di prime cure ha ritenuto dirimente il lasso di tempo intercorso tra l’esercizio dell’autotutela e il provvedimento che ne costituisce l’oggetto, pari ad oltre dieci anni, tenuto conto altresì che l’abuso sarebbe stato realizzato addirittura nel 1982. La revoca, inoltre, mancherebbe di motivazione in punto di pubblico interesse prevalente, invocando vincoli «dichiaratamente successivi alla realizzazione della costruzione stessa».
2. La difesa civica ha sviluppato la propria critica alla sentenza impugnata in due distinte parti, delle quali quella rubricata sub II di sostanziale riproposizione delle censure già avanzate nel ricorso di primo grado. Nella prima parte, invece, ha richiamato il quadro normativo dal quale deriverebbe l’inedificabilità assoluta della zona di cui è causa, ed in particolare l’art. 51, comma 1, lett. h) della l.r. n. 56 del 1980, che vieta qualsiasi intervento edilizio nella fascia di m. 200 dalle gravine, e si colloca in epoca anteriore a quella -incontestata tra le parti-di avvenuta realizzazione dell’abuso. L’errore contenuto nella “certificazione della concessione di condono” sarebbe stato indotto dalla parte che non ne avrebbe evidenziato la sussistenza, con ciò dando luogo ad una declaratoria falsa. Come anticipato nella comunicazione di avvio del procedimento del 31 gennaio 2007, rimasta senza esito, l’immobile violerebbe anche la fascia di rispetto stradale, i vincoli derivanti dalla legge “Galasso” e le previsioni del Piano urbanistico territoriale e di quello di ambito idrogeologico. L’ubicazione dello stesso “nel cuore dell’alveo della lama” (pag. 6 dell’atto di appello) lo renderebbe peraltro pericoloso per l’incolumità pubblica, in quanto di ostacolo al libero deflusso delle acque, in una zona morfologicamente soggetta ad allagamenti, siccome accaduto nel 2005, anno nel quale si è verificata una vera e propria inondazione, purtroppo anche con vittime, documentata da copiosa rassegna stampa. Ciò renderebbe intrinseco l’interesse pubblico sotteso all’annullamento d’ufficio, senza necessità di alcuna esplicitazione aggiuntiva.
3. Si è costituita in giudizio la signora Margherita L’Abbate con atto di stile, chiedendo la reiezione dell’appello. Con successiva memoria versata in atti in data 8 febbraio 2020 eccepiva la inammissibilità delle produzioni documentali del Comune del 27 luglio 2010, in quanto tardive rispetto alle statuizioni dell’art. 104, comma 2, c.p.a. Nel merito, ribadiva la totale mancanza di istruttoria e di motivazione del provvedimento avversato, dal tenore letterale del quale non sarebbe dato neppure evincere l’esatta ubicazione del manufatto, descritta con riferimento alla “parte terminale del letto alluvionale”, che peraltro è cosa ben diversa dall’assai più enfatico “cuore dell’alveo della lama”. Ciò sarebbe da ascrivere all’avvenuta redazione del provvedimento senza alcuna effettiva visualizzazione dello stato dei luoghi, che pertanto veniva richiesta a questo giudice sub specie di verificazione o accertamento tecnico a discrezione di altra natura.
4. In vista dell’odierna udienza, entrambe le parti producevano ulteriori memorie e memorie di replica. La difesa civica, in particolare, riepilogata la propria prospettazione, invocava a supporto della stessa i principi da ultimo affermati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (17 ottobre 2017, n. 8), laddove la ragionevolezza del termine per l’esercizio dell’autotutela è relativizzata rispetto all’acquisita conoscenza del profilo di illegittimità dell’atto e l’obbligo di motivazione edulcorato se le esigenze di tutela dell’interesse pubblico possono essere ricondotte alla tipologia di vincolo violato. Nel caso di specie, l’importanza della rimozione del manufatto era insistita nella pianificazione di settore sopravvenuta, peraltro concomitante con i tragici eventi alluvionali già ricordati, almeno uno dei quali interessante proprio la zona di San Giorgio, a poche centinaia di metri dall’immobile oggetto di giudizio. Quanto alla tesi avversaria, ne ribadiva la perimetrazione, già precisata nell’atto di appello, ai soli motivi di censura oggetto di scrutinio da parte del giudice di prime cure, stante che la mancata riproposizione di quelli assorbiti nei termini per la costituzione in giudizio equivale a rinuncia agli stessi, siccome previsto dall’art. 101, comma 2, c.p.a. Per contro, la relazione tecnica a firma del dirigente del settore “Assetto del territorio” del Comune di Triggiano sarebbe un mero atto di ausilio alla difesa, privo di qualsivoglia portata costitutiva, utilizzato allo scopo di chiarire quale fosse, alla data di proposizione dell’appello, la disciplina urbanistica della zona, senza alcuna pretesa di integrare le motivazioni dell’atto impugnato e/o di sostituirle.
La difesa di parte appellata, dal canto suo, ribadiva la non riconducibilità al paradigma delle false attestazioni della mancata indicazione dei vincoli, per giunta insussistenti, almeno avuto riguardo alla distanza dalla lama, tanto più che la relativa verifica era nel pieno dominio dell’Amministrazione procedente.
5. Alla pubblica udienza dell’11 novembre 2020, svoltasi con modalità da remoto ai sensi dell’art. 25, comma 2, del decreto legge n. 137 del 28 ottobre 2020, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
6. Il Collegio ritiene di dovere scrutinare preliminarmente le eccezioni di rito reciprocamente sollevate dalle parti.
Del tutto ultroneo si palesa il richiamo alla disciplina della decadenza dalle domande ed eccezioni assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, stante che l’appellata si è limitata nei propri scritti a replicare alle censure di parte avversa, che pertanto costituiscono il solo perimetro al cui interno intende muoversi l’odierno giudizio.
Per contro, merita accoglimento la rilevata inammissibilità delle produzioni documentali versate in atti il 27 luglio 2010, in particolare la relazione tecnica del dirigente comunale riepilogativa dei vincoli di zona (peraltro a tale data): a tutto concedere ai chiarimenti della difesa civica, ove si tratti di un mero atto riepilogativo di una cornice vincolistica evidentemente non chiara dalla semplice lettura del provvedimento impugnato, esso non ne assume certamente funzione certificativa, tanto più che costituisce rappresentazione di scienza e conoscenza proveniente dagli stessi uffici comunali preposti ai procedimenti di cui è causa. Il Collegio pertanto ritiene di doverne disporre lo stralcio e la conseguente inutilizzabilità ai fini dell’odierna decisione.
7. Nel merito, l’appello è infondato.
8. Rileva la Sezione come appaia innanzi tutto opportuno chiarire l’oggetto dell’odierna controversia, ovvero la legittimità dell’atto dirigenziale con il quale è stato revocato, a distanza di oltre 10 anni dalla sua formalizzazione, il “certificato sostitutivo della concessione di condono n.399/86” rilasciato il 15 gennaio 1998, vale a dire un provvedimento con il quale il Comune di Triggiano, in persona del Sindaco all’epoca competente, ha inteso rimediare alla propria precedente e protratta inerzia su un’istanza di condono risalente all’anno 1986. La sussistenza o meno dei vincoli ostativi al rilascio di ridetto condono, che costituiscono l’argomentazione fondamentale della difesa civica, rileva non ex se, o comunque non solo ex se, ma in quanto trasfusa nelle motivazioni della scelta di autotutela, essendo esse la cartina di tornasole della correttezza di un’opzione di ripristino della legalità che sopravvenga anche a distanza di molti anni.
9. Afferma il giudice di prime cure che il provvedimento impugnato non appare dunque sorretto da sufficiente motivazione e istruttoria, essendo lo stesso «supportato da una motivazione generica che non dà alcuna concreta contezza del sopravvenuto pubblico interesse rispetto ad una situazione consolidatasi nell’arco di 26 anni e oggetto di condono nel 1998». Mancherebbe, infatti, «il riferimento a qualsiasi indagine concreta in relazione all’addotta situazione di pericolo derivante dalla presenza del manufatto in questione se non l’allegazione di vincoli dichiaratamente successivi alla realizzazione della costruzione stessa. Infine, è del tutto carente una qualsivoglia comparazione tra l’interesse pubblico e quello dei privati destinatari del provvedimento di autotutela e, in particolare, qualsiasi indagine in ordine all’impraticabilità di soluzioni alternative alla demolizione che tengano conto anche degli interessi dell’attuale proprietaria dell’immobile».
Rileva in proposito la Sezione come la superficialità con la quale il Comune di Triggiano ha approcciato una questione incidente su una situazione consolidatasi, per sua esplicita scelta gestionale, da anni, emerge finanche nella errata qualificazione giuridica dell’atto impugnato. Esso, infatti, reca la dicitura “revoca”, con ciò evocando quel particolare istituto di autotutela autonomamente disciplinato dall’art. 21 quinquies della l. n. 241/1990 e caratterizzato non dalla rilevata illegittimità dell’atto presupposto, bensì dalla sua “inopportunità”, avuto riguardo alla sopravvenienza di motivi di pubblico interesse ovvero al mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento.
E’ evidente che nel caso di specie si tratti di un mero errore terminologico, tanto più che il carattere vincolato dei titoli edilizi ne implica la non revocabilità (cfr. art. 11 del d.P.R. n. 380/2001, la cui applicazione ratione temporis non può che essere estesa, ad avviso della Sezione, anche alle concessioni riconducibili al vecchio regime giuridico, comprese le sanatorie). Tuttavia, il continuo richiamo, quale motivo di pubblico interesse prioritario sotteso alla scelta adottata, alle criticità della zona in ragione degli eventi alluvionali cui è stata (successivamente) esposta, paiono evidenziare un’osmotica, quanto impropria, commistione di piani tra inopportunità ed illegittimità, avendo la preoccupazione comprensibilmente indotta da uno stato di fatto, preesistente, ma evidentemente sottovalutato, portato a rimeditare i titoli edilizi in precedenza assentiti. Rileva tuttavia il Collegio come proprio l’enfasi che vorrebbe ascriversi alle esigenze di tutela della incolumità pubblica, implicitamente sottesa alla disciplina vincolistica sulla distanza dalle lame, strida particolarmente sia con le lungaggini procedurali obiettivamente occorse (vuoi nell’istruttoria del condono, vuoi nella successiva valutazione della sua illegittimità, sopravvenuta di ulteriori tre anni all’approvazione del P.A.I.), sia con la mancata documentazione della ricerca di soluzioni alternative, anche contingibili ed urgenti, per scongiurare e prevenire le paventate problematiche, ivi compresa la mancata richiesta nell’attuale grado di giudizio di rimedi cautelari.
10. La natura discrezionale dell’annullamento d’ufficio fa sì che l’amministrazione procedente debba motivare, con consistenza e convincente articolazione logica, la sussistenza dell’interesse pubblico alla rimozione dell’atto operando una comparazione tra lo stesso e quelli contrapposti dei privati al suo mantenimento. L’onere motivazionale si connota ovviamente in termini di differente intensità a seconda della tipologia e della consistenza di quelli coinvolti nel procedimento, non dei contenuti della funzione esercitata. Evidentemente, nell’ipotesi di attività vincolata, esso risulta notevolmente affievolito.
11. L’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio costituisce sicuramente una species particolare all’interno degli atti di secondo livello. Se anche, infatti, non se ne può sostenere la natura comunque vincolata, ne è evidente la peculiarità per il suo impattare in un ambito assai più esteso del ripristino della legalità lesa nel singolo procedimento. Che non possa prescindersi sempre e comunque dalla buona fede del privato è dimostrato dalla previsione contenuta nell’art. 38 del d.P.R. n. 380/2001. La disposizione, infatti, si risolve di regola in una sorta di condono cartolare, ragionevolmente limitato a vizi che attengono esclusivamente al procedimento autorizzativo, i quali non possono ridondare in danno del privato che ha confidato sulla presunzione di legittimità di quanto assentito. L’illiceità, pertanto, sopravviene non tanto all’avvenuta realizzazione dell’intervento, come nell’abuso edilizio “tradizionale”, ma alla caducazione del titolo che lo ha consentito. La «motivata valutazione» dell’amministrazione, in tale ipotesi «afferisce al preliminare vaglio amministrativo circa la rimovibilità (anche) in concreto del vizio, ex art. 21 nonies, comma 2» (sul punto cfr. Cons. Stato, A.P., 7 settembre 2020, n. 17).
Esso non va pertanto confuso con l’esercizio tardivo del potere di vigilanza, di per sé imprescrittibile, anche in ragione della natura permanente dell’illecito che va a reprimere. E tuttavia condivide con lo stesso la funzione di tutela del corretto esercizio del governo del territorio, attribuito al Comune quale Ente territoriale più vicino alla comunità di riferimento sia in termini di pianificazione generale, seppure nella cornice data da atti di programmazione di più ampio respiro, sia in termini di legittimazione del singolo intervento. All’esigenza di garantire stabilità e certezza alle relazioni giuridiche nell’ambito in questione non fa pertanto da contraltare solo quella di ripristino della legalità lesa, bensì anche la necessità di recupero della funzione, attribuita al titolo edilizio, di strumento di tutela preventiva dei valori di armonico e predeterminato sviluppo del territorio nel quale l’intervento si inserisce. E’ evidente pertanto che nella valutazione dell’attualità dell’interesse pubblico all’annullamento si inseriscano considerazioni di più ampio respiro sull’entità del contrasto dell’opera con specifiche regole poste a presidio del luogo ove si inserisce, siano esse di stretta attinenza comunale, ovvero, a maggior ragione, riconducibili a superiori interessi, quali l’ambiente, il paesaggio, l’importanza storica o culturale, la cui tutela è attribuita a diversi livelli dell’ordinamento.
Ciò spiega la sensibilità della tematica e le oscillazioni giurisprudenziali sul punto, a seconda che si sia data prevalenza al dato formale (l’illegittimità in re ipsa) della violazione, ovvero, al contrario, alla necessità di calarne l’impatto nella realtà comunque venutasi a creare e nelle conseguenti legittime aspettative di chi ha fatto affidamento sulla correttezza della propria attività edificatoria. E’ in tale variegato e delicato contesto che si è inserita la pronuncia dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, invocata anche dalla difesa civica, seppure stralciandone a proprio piacimento singoli passaggi, decontestualizzati dall’architettura argomentativa e ancor più dalle specificità che connotano il caso di specie (Cons. Stato, A.P., 17 ottobre 2017, n. 8).
Chiamata a pronunciarsi proprio sugli ambiti di applicabilità dell’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990, peraltro nella versione antecedente alla novella del 2015, con riferimento ad un titolo edilizio consolidatosi nel tempo, e tuttavia viziato, essa ha fissato alcuni capisaldi, dai quali non è ovviamente possibile prescindere. In primo luogo, dunque, in assenza di un’indicazione normativa precisa quale quella successivamente introdotta dalla l. 7 agosto 2015, n. 124, è incontestabile che la decorrenza del tempo, quale che essa sia, non elide il potere di intervento. Ciò non significa affatto neutralizzare il relativo fattore, esponendo il privato ad un tempus poenitendi sostanzialmente illimitato. Bensì, al contrario, imporne una valutazione di congruità rimessa (anche) al vaglio del giudice, nella cui disamina la motivazione non può che assurgere ad elemento determinante. La “ragionevolezza” del tempo di intervento costituisce infatti comunque un imprescindibile elemento di valutazione della correttezza dell’operato della pubblica amministrazione, tant’è che se ne impone la coniugazione con la esigibilità della “correzione” stessa, «ragione per cui è del tutto congruo che il termine in questione (nella sua dimensione ‘ragionevole’) decorra soltanto dal momento in cui l’amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto». In sintesi, è chiaro che un’immotivata e protratta inerzia, seguita da un improvviso e ingiustificato, almeno negli atti, revirement connota di sicura negatività la valutazione del tempo trascorso, a maggior ragione ove davvero considerevole, come nel caso di specie.
12. Rileva ancora il Collegio come nella valutazione della “esigibilità”, intesa come astratta possibilità di intervenire ad un momento dato, evitando ulteriori indebiti temporeggiamenti, non possano non incidere alcune circostanze concrete quali la tipologia del provvedimento che si va ad annullare, la complessità dell’iter istruttorio, le incertezze in fatto o in diritto che ne hanno accompagnato lo sviluppo, nonché, da altra angolazione, il fattore che ne ha causato la rimeditazione. Oggetto della “revoca” attuata con l’ordinanza dirigenziale impugnata è, dunque, un non meglio tipizzato “certificato sostitutivo della concessione di condono”, rilasciato alla richiedente in data 15 gennaio 1998. Non sfugge alla Sezione la granitica posizione della giurisprudenza circa la necessità, nell’istruttoria delle domande di condono ai sensi della l. n. 47/1985, del requisito della c.d. “doppia conformità”, avuto riguardo, cioè, non solo al momento della realizzazione dell’opera, ma anche a quello della presentazione dell’istanza. La mancanza di tale presupposto, non consente la definizione positiva del procedimento, ma, più a monte, ne impedisce radicalmente la maturazione per silentium, non potendo il relativo termine neppure iniziare a decorrere ove manchi, ad esempio, il pregiudiziale parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo ovvero addirittura lo stesso sia ostativo alla edificazione in sé. L’assenza di tali elementi ostativi o condizionanti costituisce dunque doverosa verifica pregiudiziale imprescindibile in relazione a qualsiasi domanda di tale tipologia, di regola peraltro piuttosto semplice in quanto da svolgere su base meramente cartolare. Pertanto, nel momento in cui il Comune di Triggiano ha rilasciato il “certificato”, successivamente definito “sostitutivo di concessione di condono” ha acclarato non solo l’avvenuta decorrenza infruttuosa dei termini per la definizione del procedimento con un provvedimento espresso, ma anche l’assenza di fattori ostativi alla significatività del silenzio, ovvero (primo “considerato”) «che l’immobile non risulta soggetto a vincoli». Il tutto, peraltro, “appropriandosi” dell’eventuale omissione del privato (risalente peraltro a 12 anni prima), tanto da trasformarla, questa sì, o in una certificazione falsa, o in un grossolano errore di istruttoria.
13. Sostiene la difesa civica che si tratterebbe di una sorta di falso per induzione, in quanto gli uffici si sarebbero allineati alle indicazioni –recte, alle omissioni- della richiedente il condono, che nulla ha esplicitato sul punto. Di ciò il provvedimento di “revoca” darebbe atto in maniera esaustiva laddove richiama la circostanza che negli allegati alla richiesta «non vengono evidenziati i vincoli di inedificabilità a cui l’immobile era soggetto».
E’ noto, infatti, e ricordato anche dalla richiamata pronuncia dell’Adunanza plenaria del 2017, che laddove il comportamento del richiedente sia la causa dell’errore della pubblica amministrazione, il relativo affidamento diviene automaticamente recessivo rispetto all’esigenza di ripristinare la legalità, recte, neppure può ipotizzarsi un qualche affidamento da tutelare, essendo lo stesso ontologicamente incompatibile rispetto ad un vizio indotto. Da qui l’affermazione in forza della quale se in via generale anche in ambito edilizio il potere della P.A. di annullare in via di autotutela un atto amministrativo illegittimo incontra un limite nel rispetto dei principi di buona fede, correttezza e tutela dell’affidamento comunque ingenerato dall’iniziale adozione dell’atto (i quali plasmano il conseguente obbligo motivazionale); tali esigenze vengono del tutto meno qualora il contegno del privato abbia consapevolmente determinato una situazione di affidamento non legittimo. «In tali casi l’amministrazione potrà legittimamente fondare l’annullamento in autotutela sulla rilevata non veridicità delle circostanze a suo tempo prospettate dal soggetto interessato, in capo al quale non sarà configurabile una posizione di affidamento legittimo da valutare in relazione al concomitante interesse pubblico».
14. La ricostruzione in fatto e in diritto della vicenda dimostrano ampiamente l’estraneità al paradigma in questione dell’odierna fattispecie. La presunta forza ingannevole della omissione dichiarativa del privato, peraltro tipicamente sulla base di una modulistica predisposta che presuppone di apporre specifiche crocette, non può coinvolgere gli aspetti pubblicistici presupposti della stessa procedibilità della domanda di spettanza dell’Amministrazione, tanto più che lo stesso potrebbe ignorare l’insistenza del vincolo o addirittura, come accaduto nel caso di specie, essere convinto della sua insussistenza, tanto da farne oggetto di contestazione in sede di giudizio. In sintesi, altro è fornire una descrizione non veritiera dell’opera che si intende realizzare o si è realizzata, alterandone, ad esempio, le dimensioni, le caratteristiche o l’epoca di realizzazione; altro invece non indicare l’esistenza di vincoli addirittura preclusivi dello scrutinio della domanda in sé, sì da legittimarne l’immediata archiviazione da parte del Comune.
15. Acclarato dunque che l’errore -se di errore si è trattato- è interamente da ascrivere all’Amministrazione procedente, che non poteva certo appiattirsi sulle indicazioni del privato in ordine al regime giuridico di una zona del cui presidio doveva assumersi la cura, occorre ora capire in che misura e con quali modalità, una volta accortasi dello stesso, potesse ancora intervenire, annullando il titolo e, conseguentemente, intimando la demolizione del manufatto.
Se, infatti, in relazione alle vicende sorte nella vigenza della precedente formulazione dell’art. 21 nonies della l. n. 241/1990, il decorso di un lasso di tempo anche considerevole dal rilascio del titolo edilizio non incide in radice, per quanto già detto, sul potere dell’Amministrazione di annullare in autotutela il titolo medesimo, esso comunque la onera del compito di valutare motivatamente se ciò risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale.
Vero è che la ontologica compresenza di interessi pubblici variegati e intersecantisi desumibili dalla elencazione di norme e di atti contenuta nel provvedimento impugnato, parrebbe sbilanciare a suo vantaggio la possibilità –recte, per certi versi, necessità- di ripensare le proprie scelte gestionali, emendandosi. L’interesse prioritario, infatti, può in effetti risiedere nella recuperata necessità di tutelare, ancorché in maniera postuma e in sede di ravvedimento, proprio le ragioni poste a base di un vincolo di inedificabilità assoluta, ovvero correlato all’esigenza di scongiurare un rischio, ad esempio sismico o idrogeologico, appunto: «in tali ipotesi la motivazione dell’atto di ritiro potrà essere legittimamente fondata sul richiamo all’inderogabile disciplina vincolistica oggetto di violazione, ben potendo tale richiamo assumere un rilievo preminente in ordine al complesso di interessi e di valori sottesi alla fattispecie» (v. ancora Cons. Stato, A.P. n. 8 del 2017, cit. supra). La ragione di ciò è di intuibile percezione. Laddove, infatti, il valore pubblico intrinseco al vincolo perduri, l’onere motivazionale gravante sull’Amministrazione potrà dirsi soddisfatto anche semplicemente attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio allo stesso, che ne incorpora l’interesse ad un tardivo esercizio del ius poenitendi.
A ben guardare, tuttavia, alle già rilevate carenze istruttorie e motivazionali, che accentuano l’obiettiva consistenza del tempo trascorso, si somma la mancanza totale di una parte descrittiva delle circostanze di fatto che hanno portato alla ritenuta “localizzazione” impropria del fabbricato. All’affermazione assertiva di insussistenza di qualsivoglia vincolo, infatti, contenuta nell’atto annullato, si contrappone non la “scoperta” di averne per errore omesso uno, ma la declinazione di una pletora degli stessi, di cui è difficile comprendere la pregressa pretermissione, ma ancor più la effettiva estensione all’epoca di riferimento. Il pot-pourri di richiami, che non pone alcuna distinzione fra passato e futuro -tanto da aver indotto il primo giudice ad affermare, piuttosto sinteticamente, che l’atto argomenta solo su «vincoli dichiaratamente successivi alla realizzazione della costruzione stessa»- sconta l’evidente volontà di evidenziare la potenziale esondabilità dell’intera area. Il che di per sé già giustificherebbe un intervento correttivo, purché ne fossero state davvero chiarite le effettive coordinate giuridiche e fattuali.
17. Scendendo ad un’analisi di ancora maggior dettaglio, non è di immediata intellegibilità neppure la descrizione dell’ubicazione del fabbricato, che sorgerebbe sia “in adiacenza” di una strada provinciale (a distanza dunque imprecisata dalla stessa, ma sicuramente assai prossima) che “precisamente” anche “nel tratto terminale” del letto della lama, evidentemente posto a sua volta pericolosamente a ridosso di tale arteria viaria. La ipotizzabile pericolosità dell’insieme, per come descritto, è presumibilmente confluita nella zonizzazione contenuta nel (successivo) Piano di ambito idrogeologico, non a caso egualmente citato. La sua approvazione avrebbe potuto indurre l’Amministrazione ad un ripensamento, rendendo “conoscibile” l’errore commesso: al contrario, dovranno trascorrere ancora tre anni prima che essa si risolva ad annullare il condono, a quel punto però menzionando espressamente anche lo strumento di pianificazione settoriale in questione.
18. Il vincolo di cui si ipotizza la sussistenza sarebbe dunque quello di cui all’art. 51, comma 1, lett. h, della l.r. della Puglia 30 maggio 1980, n. 56, peraltro neppure menzionato espressamente. Trattasi, in particolare, di una sorta di misura di salvaguardia generalizzata pensata dal legislatore regionale nelle more dell’adozione dell’apposito Piano di tutela di settore per preservare la peculiarità ambientale di un particolare ambito territoriale connotato morfologicamente dalla presenza di fenomeni quali le gravine. Esso è stato peraltro riconosciuto costituzionalmente legittimo in relazione alla sua natura conformativa e non espropriativa. La legge regionale 10 maggio 1990, n. 30 (questa sì, richiamata nell’atto), ne ha sostanzialmente “interpretato” i presupposti, quanto meno nella lettura datane dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, estendendone la portata alle “lame”, in quanto fenomeno geologico assimilabile, e recuperando altresì le altre conformazioni comunque denominate, pur sempre riconducibili alla nozione di alvei torrentizi scavati nel corso dei secoli in un terreno dalle innegabili peculiarità, anche paesaggistiche (sul punto, cfr. Cons.Stato, sez. II, 14 gennaio 2020, n. 350 nonché sez. IV, 28 novembre 2018, n. 6733). In altri termini, si è ritenuto che la disposizione regionale debba essere rettamente intesa e interpretata come riferibile a qualsiasi bacino di tipo imbrifero, percorso anche soltanto in via sporadica ed eccezionale da acque meteoriche, quale che sia la terminologia utilizzata. Il generico riferimento, contenuto nella l.r. n. 30/1990, ai «fiumi, torrenti e corsi d’acqua classificati pubblici ai sensi del TU sulle acque ed impianti elettrici approvato con RR 11 dicembre 1933, n. 1775 e successive integrazioni, nonché dal ciglio più elevato delle gravine o lame» ha fatto sì che il relativo vincolo sia stato ricondotto in maniera promiscua sia ad esigenze di natura paesistica, che di tutela idrogeologica. Da qui, ritiene il Collegio, il riferimento a tale tipologia di vincolo che si ritrova, senza particolari esplicitazioni aggiuntive nell’atto impugnato. L’ordinanza n. 144/2008, infatti, a tale riguardo reca la dicitura che la zona è “a rischio idrogeologico, interessata recentemente da eventi idrogeologici e meteoclimatici”, salvo poi connotare gli stessi come “rivelanti”, aggettivazione che in assenza di specificazione esplicativa pare del tutto priva di senso, contribuendo, con la sua presupponibile riconducibilità ad un errore di battitura (da intendersi dunque come “rilevanti”) ad accentuare l’oscurità motivazionale del provvedimento.
19. Del tutto inconferente si palesa poi il richiamo al Piano urbanistico territoriale tematico, quale piano paesistico territoriale, con specifica considerazione dei valori paesaggistici ed ambientali, previsto dall’art. 1 bis della legge 8 agosto 1985, n. 431. E’ vero, infatti, che il regime di inedificabilità da essi introdotto viene considerato confermativo di quello di cui al richiamato art. 51, comma 1, lett. h), della l.r. 56 del 1980 (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 18 maggio 2015, n. 2509; id., 12 febbraio 2014, n. 683, id. 13 giugno 2012, n. 3497), ma non per questo ne risulta chiarito l’ambito di riferimento e la pertinenza del richiamo. Esso, inoltre, è stato approvato con deliberazione della Giunta Regionale della Puglia n. 1748 del 15 dicembre 2000 e dunque, per quanto si ponga in continuità con la disciplina della richiamata legge regionale, è sicuramente sopravvenuto quanto a contenuti specifici rispetto all’istanza di condono di cui in controversia. Lo stesso è a dirsi per il P.A.I., approvato con deliberazione del Comitato Istituzionale dell’Autorità di bacino della Puglia n. 39 del 30 novembre 2005. 20. Infine, l’asserita esistenza di vincolo paesaggistico, giusta il richiamo -esso pure solo quale presupposto normativo- al d.m. 1 agosto 1985: trattasi di provvedimento pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 6 febbraio 1986, dunque, astrattamente, poco più di un mese prima della presentazione dell’istanza di condono, datata 12 marzo 1986. Anche a prescindere dal regime di efficacia correlato alla prevista pubblicazione all’Albo dei Comuni interessati per tre mesi di tale dichiarazione, siccome disposto dal combinato tra gli artt. 3 della l. n. 1497/1930 e 12 della l. n. 1357/1930, il foglio catastale di interesse (n. 2) figura limitatamente ad alcune particelle, citate tuttavia in termini di descrizione dei confini dell’area. In assenza di una cartografia con mappali leggibili, non è possibile sapere se quello di interesse nell’odierna controversia (ovvero il n. 89) vi rientrasse o meno. Né un qualche elemento di conoscenza aggiuntiva è dato evincere dalla formulazione testuale dell’atto impugnato che anche sul punto si limita al mero richiamo della fonte.
20. In sintesi, ritiene il Collegio che il punto di equilibrata ricaduta tra necessità di ovviare ad un errore per la sua gravità sul piano delle conseguenze per il territorio e ragionevolezza del termine di ravvedimento, che non sfoci nella generalizzata giustificazione di colpevoli ritardi dell’Amministrazione, sia costituito proprio dalla corretta motivazione, effettuata sì attraverso il richiamo alla (eventuale) disciplina vincolistica rilevante ratione temporis, ma in comparazione con lo stato di fatto su cui incide. Operazione peraltro non necessitante, almeno prima facie, di particolari approfondimenti, siccome richiesto dall’appellata, essendo sufficiente una mera comparazione tra la cartografia raffigurante i vincoli, per come vigenti all’epoca della costruzione e dell’istanza di condono, e gli elaborati relativi al manufatto abusivo.
E’ evidente, infatti, che laddove l’ostacolo derivi da atti pianificatori sopravvenuti, seppure idonei ratione materiae ad orientare in senso restrittivo e rigoroso la lettura delle indicazioni pregresse, di essi non si possa tenere conto ai fini dell’esercizio dell’autotutela, che presuppone l’avvenuta individuazione e la conseguente rimozione di vizi originari dell’atto, non dei suoi potenziali contrasti con il quadro ordinamentale sopravvenuto. Ciò non toglie che ove tale quadro ordinamentale, come purtroppo talvolta accaduto, abbia evidenziato errori non tanto e non solo nel rilascio del singolo titolo di legittimazione, quanto piuttosto nell’attività di pianificazione più generale o nella generalizzata tolleranza degli abusi, finendo per sottovalutare, ad esempio, i rischi derivanti dalla avvenuta realizzazione di insediamenti abitati in zone con rilevanti problematiche idrogeologiche, è evidente che essi debbano essere affrontati e risolti in una visione di più ampio respiro, nell’ambito delle scelte di politica di tutela del territorio da attuare peraltro con la celerità e il tempismo che la salvaguardia dell’incolumità pubblica sempre presuppone.
21.Alla luce di quanto detto, il Collegio ritiene che l’appello debba essere respinto e per l’effetto debba essere confermata la sentenza del T.A.R. per la Puglia n. 1775 del 2009.
Resta ovviamente salva la facoltà del Comune di Triggiano di rieditare il provvedimento annullato, epurandolo dai rilevati vizi di istruttoria e di motivazione, laddove ne sussistano i richiamati presupposti.
22. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da motivazione.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna il Comune di Triggiano al pagamento delle spese del grado di giudizio, che liquida in euro 3.000 (tremila/00) a favore della signora Margherita L’Abbate, oltre oneri accessori, se dovuti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 novembre 2020 tenutasi con modalità da remoto con l’intervento dei magistrati:
Carlo Deodato, Presidente
Paolo Giovanni Nicolo’ Lotti, Consigliere
Giancarlo Luttazi, Consigliere
Oreste Mario Caputo, Consigliere
Antonella Manzione, Consigliere, Estensore