A cura dell’avv. Xavier Santiapichi
Il TAR del Lazio si esprime sulla legittimità del DM 161 (Terre e rocce da scavo) Con la sentenza che pubblichiamo il TAR romano ha confermato la legittimità del decreto del Ministero dell’Ambiente del Territorio e del Mare, di concerto con il Ministero delle Infrastrutture 10 agosto 2012, n.161, recante disposizioni sul riutilizzo delle terre e rocce da scavo.
Pubblichiamo la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
- N. 06187/2014 REG.PROV.COLL.
- N. 09769/2014 REG.RIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Bis)
HA PRONUNCIATO LA PRESENTE
sul ricorso numero di registro generale 9769 del 2012, proposto da: S.r.l. Imga, S.r.l. Costruzioni e Immobiliare, S.p.a. Tagliabue, Ance – Associazione Nazionale Costruttori Edili, Assimpredil – Ance – Associazione Imprese Edili Complementari delle Province di Milano Lodi Monza e Brianza, Ance Lombardia – Associazione Regionale Costruttori Edili Lombardi, Ance Veneto – Associazione Regionale Costruttori Edili, Ance Piemonte – Valle D’Aosta, Ance – Friuli Venezia Giulia, Associazione Nazionale Costruttori Edili – Trento Sezione Autonoma dell’Edilizia di Confindustria Trento, e Anepla – Associazione Nazionale Estrattori Produttori Lapidei e Affini, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Fabio Todarello, Alice Colleoni, Diego Vaiano, con domicilio eletto presso quest’ultimo, in Roma, Lungotevere Marzio, 3;
CONTRO
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona dei rispettivi Ministri p.t. e Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio p.t., rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato e presso la stessa domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, 12;
NEI CONFRONTI DI
Patrizia Boldini, n.c.;
PER L’ANNULLAMENTO
in parte qua, del decreto del Ministero dell’Ambiente del Territorio e del Mare, di concerto con il Ministero delle Infrastrutture 10 agosto 2012, n.161; ove occorrer possa, di ogni altro atto e/o provvedimento preordinato, conseguente o connesso;
- Visti il ricorso e i relativi allegati;
- Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e della Presidenza del Consiglio dei Ministri; Viste le memorie difensive;
- Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. udienza pubblica del giorno 20 febbraio 2014 il Consigliere Solveig Cogliani e uditi per le parti i
FATTO
Con il ricorso indicato in epigrafe, gli istanti – talune imprese operanti nel settore delle costruzioni e altri associazioni di categoria – censuravano il decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, assunto di concerto con il Ministero delle Infrastrutture n. 161 del 2012, entrato in vigore il successivo 6 ottobre 2012, con cui sono stati stabiliti i criteri qualitativi e quantitativi da soddisfare affinché i materiali da scavo possano essere riutilizzati come sottoprodotti, sulla base delle condizioni previste dall’art. 184 bis, d.lgs. n. 152 del 2006, che ha recepito l’art. 5, direttiva 2008/98/CE e con il quale è stata dettata la disciplina tecnica relativa ai materiali di origine antropica presenti nei materiali di riporto. Lamentavano che il Regolamento predetto avrebbe profondamente sconvolto l’attività di costruzione, in quanto i complessi, onerosi e spesso inapplicabili adempimenti previsti ai fini del riutilizzo dei materiali da scavo ostacolerebbero l’effettivo riutilizzo delle terre e delle rocce da scavo, essendo, peraltro, contrastanti con le norme di legge di rango superiore in materia ambientale, edilizia e di trasporto, nonché con il principio di semplificazione dell’attività amministrativa. Premesso, dunque, il quadro normativo di riferimento, la parte ricorrente deduceva i seguenti motivi di gravame:
1 – violazione e falsa applicazione dell’art. 184 bis, 183 comma 1, lett. a), 192 e 255, 212 e 256, 259, d.lgs. n. 152 del 2006, dell’art. 5 direttiva 2008/98/CE, incompetenza e difetto assoluto di attribuzione, violazione del principio di legalità di cui all’art. 1, l. n. 689 del 1981, eccesso di potere per violazione del principio di proporzionalità, per manifesta irragionevolezza ed illogicità, relativamente alle ipotesi di decadenza dalla qualifica di sottoprodotto, avendo il Regolamento impugnato illegittimamente previsto, all’art. 5 commi 7, 8, 9 e all’art. 8, comma 3, all’art. 12 commi 4 e 5, all’art. 15 comma 3, una serie di ipotesi di decadenza dalla qualifica di sottoprodotto (ed il conseguente obbligo di gestire il materiale da scavo come rifiuto), costituente una sanzione non contemplata dalla fonte primaria ed in contrasto, peraltro, con l’ordinamento comunitario (definizione di sottoprodotto contenuta nella direttiva 2008/98/CE) e con la disciplina interna dei rifiuti (art. 183 comma 1 lett. a);
2 – violazione e falsa applicazione degli artt. 23 e ss., d.P.R. n. 380 del 2001, degli artt. 6 e 19, l. n. 241 del 1990, del principio di buon andamento della p.a., eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria, contraddittorietà sotto il profilo dell’illegittima imposizione del termine di 90 giorni per l’inizio dei lavori dalla presentazione del Piano di utilizzo all’Autorità competente o la richiesta di aggiornamento del Piano di utilizzo a seguito di modifica sostanziale dei requisiti dello stesso, indipendentemente dalla normativa edilizia applicabile alla realizzazione dell’opera (art. 5 comma 1 del Regolamento in esame), contraddicendo la previsione quanto disposto dalla normativa edilizia relativamente agli interventi in D.I.A. o S.C.I.A;
3 – violazione dell’art. 266, comma 7, d.lgs. n. 152 del 2006, del principio di semplificazione amministrativa, eccesso di potere per ingiustizia manifesta, contraddittorietà, difetto assoluto di istruttoria con riferimento ai cantieri di piccole dimensione, equiparando, il Regolamento, di fatto, i piccoli cantieri a quelli di media-grande dimensione quanto alla gestione dei materiali di scavo;
4 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 20, l. n. 241 del 1990, dell’art. 97 Cost., nonché eccesso di potere per contraddittorietà sotto il profilo del meccanismo di approvazione del piano di utilizzo, non potendo essere previsto l’istituto del silenzio-assenso nella materia ambientale, secondo quanto disposto dall’art. 20 della legge generale sul procedimento amministrativo;
5 – violazione dell’art. 184 bis, comma 1, lett. d) e dell’art. 179, nonché del tit. V, d.lgs. n. 152 del 2006, e eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione, contraddittorietà, violazione del principio di proporzionalità e violazione dell’art. 97 Cost. sotto il profilo delle sproporzionale verifiche analitiche imposte in caso di riutilizzo di materiali da scavo provenienti da siti contaminati, laddove il Regolamento prevede la possibilità di riutilizzo dei materiali predetti unicamente a condizione che vengano verificati positivamente tutti gli elementi ed i composti di cui alla Tab. 1 dell’All. 5, alla Parte IV, d.lgs. n. 152 del 2006 con riferimento alla specifica destinazione d’uso urbanistica del sito di destinazione, anziché i soli parametri indicati per la caratterizzazione ambientale della Tab. 4.1. dell’All. 4 del Regolamento;
6 – violazione e falsa applicazione dell’art. 2, l. n. 241 del 1990, dell’art. 97 Cost., eccesso di potere per difetto di istruttoria, laddove il Regolamento prescrive il parere obbligatorio dell’ARPA per la presentazione del Piano di Utilizzo, senza stabilire tuttavia un termine per l’espressione dello stesso;
7 – violazione dell’art. 49, d.l. n. 1 del 2012, nonché dell’art. 184 bis, d.lgs. n. 152 del 2006, incompetenza assoluta, eccesso di potere per contraddittorietà ed illogicità manifesta, violazione del principio di proporzionalità e sviamento sotto il profilo della dichiarazione di avvenuto utilizzo (DAU), che impone un regime di responsabilità sproporzionato, dovendo le ricorrenti dimostrare l’utilizzo conforme del materiale anche nel caso in cui esso avvenga tramite soggetti terzi;
8 – violazione e falsa applicazione della l. n. 298 del 1975, del d.P.R. n. 472 del 1996, dell’art. 7 bis, d.lgs. n. 286 del 2005, dell’art. 49, d.l. n. 1 del 2012, nonché incompetenza assoluta, eccesso di potere, difetto di istruttoria, contraddittorietà ed illogicità manifesta, avendo introdotto il Regolamento (art. 11 e relativo All. 6) una disciplina eccezionale del trasporto dei materiali da scavo non prevista dalla fonte primaria;
9 – violazione dell’art. 2comma 1, lett. b) e c), direttiva 2008/98/CE, dell’art. 185, comma 1, lett. b) e c), d.lgs. n. 152 del 2006, falsa applicazione dell’art. 3, d.l. n. 2 del 2012, convertivo con l n. 28 del 2012, nonché eccesso di potere per falsità dei presupposti di fatto e di diritto, sviamento sotto il profilo dell’omessa esclusione dei materiali di riporto che restano in sito dall’ambito di applicazione del d.m. n. 161 del 2012 in esame, poiché, invece, l’assimilazione dei materiali di riporto alla matrice ambientale suolo costituirebbe – asseritamente – un principio immanente alla normativa interna e comunitaria;
10 – violazione delle medesime norme di cui al precedente motivo, oltreché dell’art. 179, d.lgs. n. 152 del 2006, nonché dell’All. 2 al Tit. V della parte IV, d.lgs. n. 152 cit. e eccesso di potere per illogicità ed irragionevolezza, difetto assoluto dei presupposti, di motivazione e di istruttoria, sotto il profilo dell’illegittima limitazione della percentuale (20% in massa) della presenza di materiali inerti di origine antropica nei riporti, essendo la delega limitata all’indicazione di una elencazione delle tipologie di materiali inerti di origine antropica che si riscontrano più comunemente nei riporti;
11 – eccesso di potere per illogicità ed irragionevolezza, difetto assoluto di motivazione e di istruttoria, mancanza dei presupposti di fatto e di diritto sotto il profilo dell’illegittima individuazione delle tipologie di materiali inerti di origine antropica;
12 – violazione e falsa applicazione della direttiva 2006/21/CE, del d.lgs. n. 117 del 2008, dell’art. 49, d.l. n. 1 del 2012, nonché incompetenza assoluta, falsa applicazione della Sez. IIa, del Tit. I, parte III, d.lgs. n. 152 del 2006 e eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione, irragionevolezza sotto il profilo dell’illegittima inclusione dei residui di lavorazione dei materiali lapidei nei materiali da scavo. Gli istanti chiedevano, pertanto, la declaratoria di nullità delle previsioni regolamentari viziate da incompetenza assoluta e l’annullamento del provvedimento impugnato nei limiti delle dedotte censure. Si costituivano le Amministrazioni per resistere al ricorso.
Tuttavia, con la memoria del 15 gennaio 2014, la difesa erariale rappresentava che, a seguito delle modifiche legislative intervenute per effetto dell’art. 8 bis, l. n. 71 del 2013, di conversione con modifiche del d.l. n. 43 del 2013 cd. “Expo 2015” e degli artt. 41 e 41 bis, d.l. n. 69 del 2013 cd. “decreto del fare”, convertito con modificazioni nella l. n. 98 del 9 agosto 2013, recante “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia”, in vigore dal 21 agosto 2013: – l’ambito di applicazione del regolamento risulta limitato, essendo esonerati i piccoli cantieri, poiché “le disposizioni del regolamento … si applicano solo alle terre e rocce da scavo prodotte nell’esecuzione di opere soggette ad autorizzazione integrata ambientale o a valutazione di impatto ambientale”, mentre “alla gestione dei materiali da scavo, provenienti dai cantieri di piccole dimensioni la cui produzione non superi i seimila metri cubi di materiale, continuano ad applicarsi su tutto il territorio nazionale le disposizioni stabilite dall’articolo 186 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, in deroga a quanto stabilito dall’articolo 49 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27” (art. 8 bis l. n. 71 del 2013 cit.); – il predetto esonero è confermato per tutti i piccoli cantieri, anche quelli soggetti a VIA o AIA, essendo applicabile agli stessi la procedura semplificata in ragione del principio di parità di trattamento che impone la medesima procedura ai casi analoghi (cantieri sotto i 6.000 mc.) (art. 41 bis, d.l. n. 69 del 2013 cit.).
Pertanto, le Amministrazioni chiedevano dichiararsi l’improcedibilità dei motivi relativi all’estensione del Regolamento ai piccoli cantieri, chiedendo per il resto la reiezione del ricorso. Inoltre, con la successiva memoria del 5 giugno 2013, l’Avvocatura Generale dello Stato, precisava, altresì, con riferimento alla dedotta illegittimità del Regolamento, laddove include nella nozione di materiale da scavo i residui di lavorazione dei materiali lapidei non contenenti acrilamide o poliacrilamide, che, ai sensi dell’art. 186, comma 7 ter, d.lgs. n. 152 del 2006, i residui predetti costituiscono materiale diverso dai residui provenienti dall’estrazione, di cui d.lgs. n. 117 del 2008. Pertanto, la parte ricorrente, aderendo alle predette interpretazioni delle Amministrazioni resistenti, con memoria per l’udienza pubblica del 20 febbraio 2014, chiedeva, in via preliminare, dichiararsi l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dei motivi 3, 9, 10, 11 e 12 (previo riconoscimento della definizione di materiale da scavo secondo quanto precisato dall’Avvocatura), insistendo per l’accoglimento relativamente alle altre censure. La causa, pertanto, era trattenuta per la decisione all’udienza di discussione.
DIRITTO
I – Osserva il Collegio che per il sopravvenire della disciplina richiamata sia da parte ricorrente che dalle Amministrazioni resistenti, si deve procedere ad una disamina della normativa succedutasi in materia. Le terre e rocce da scavo – ovvero come è evincibile dalla stessa dizione letterale, provenienti da escavazione – in un primo tempo risultavano escluse dall’applicazione del d.lgs. n. 22 del 1997 (c.d. decreto Ronchi) ai sensi dell’art. 10 della l. 93 del 2001, successivamente confermato dall’art. 1 commi 17, 18 e19, l. n. 443 del 2001 (c.d. legge Lunardi).
Con la legge comunitaria n. 306 del 2003 all’art. 23 (disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee) in modifica all’art. 1 della 443/01, erano definite le condizioni per tale esclusione delle terre e rocce da scavo dalla materia dei rifiuti; in particolare, prevedendosi a tal fine che il loro riutilizzo sia “certo ed autorizzato secondo le modalità previste dal progetto di VIA o, in mancanza, secondo le indicazioni date dalle competenti autorità amministrative”.
L’esclusione delle terre e rocce di scavo dalla materia dei rifiuti veniva in seguito regolamentata dall’art. 186 del d.lgs. 152 del 2006. Lo stesso decreto d.lgs 4 del 2008 (correttivo del d.lgs 152/06), entrato in vigore il 13 febbraio 2008, consentiva di escludere dalla disciplina sui rifiuti le terre e rocce da scavo non provenienti da siti contaminati, purché destinate a determinate e previste utilizzazioni, da inserire preventivamente nei progetti approvati. La novella introdotta dal d.lgs. n. 205 del 2010, in attuazione della direttiva 2008/98/CE, modificava il precedente testo normativo, in particolare introducendo gli artt. 184 bis e 184 ter al d.lgs. n. 152. L’art. 184 bis, richiamato anche dall’art. 183 comma 1, lett. “qq”, infatti, definisce il concetto di sottoprodotto, ponendo le condizioni essenziali affinché un materiale possa essere classificato in tal senso. L’art. 184 ter, d’altro canto, nel definire la cessazione della qualifica di rifiuto, stabilisce i termini da soddisfare affinché ciò accada, fissando il presupposto che il materiale sia stato sottoposto ad una operazione di recupero e abbia di conseguenza acquisito caratteristiche effettive di utilizzabilità e collocabilità sul mercato. Il d.l. n 1 del 2012, convertito dalla l. 24 marzo 2012 n. 27, all’art. 49 ha previsto l’emanazione entro 60 gg. del d.m. di armonizzazione della disciplina di riferimento, di cui si verte, con l’art. 184 bis sui sottoprodotti, con la contemporanea abrogazione dell’art. 186 del d.lgs. 152 del 2006. Il Regolamento è entrato in vigore il 6 ottobre 2012.
II – In primo luogo, dunque, risulta necessario definire l’ambito di applicazione del decreto impugnato, ad esito delle modifiche legislative intervenute per effetto dell’art. 8 bis, l. n. 71 del 2013 ed, in particolare, del d.l. 21 giugno 2013 n. 69, al fine di delimitare l’oggetto della presente controversia. In vero, l’art. 49, del d.l. 24 gennaio 2012 n. 1 disponeva che “….L’utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti da adottarsi entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto”. In sede di conversione, la legge n. 27 del 2012, modificava detto articolo nei seguenti termini: utilizzo delle terre e rocce da scavo è regolamentato con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del
– “L’ territorio e del mare di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti [da adottarsi entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto].” (comma 1); – “Il decreto di cui al comma precedente, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, stabilisce le condizioni alle quali le terre e rocce da scavo sono considerate sottoprodotti ai sensi dell’articolo 184-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006”. (comma 1 bis);
– “All’articolo 39, comma 4, del decreto legislativo 3 dicembre 2010, n. 205, il primo periodo è sostituito dal seguente: “Dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui all’articolo 49 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, è abrogato l’articolo 186”. (comma 1 ter); L’art. 49, dunque, come sopra modificato, disponeva l’abrogazione dell’art. 186 del T.U. A., di cui all’art. 39, del d.lgs. 205/2010 (“Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive”) alla “data di entrata in vigore del decreto ministeriale” di regolamentazione dell’utilizzo delle terre e rocce da scavo (previsto dall’art. 184 bis, comma 2, T.U. cit.).
Per un verso, è chiaro, dunque, che la l. n. 27 del 2012 di conversione del d.l. n. 1 del 2012, secondo il meccanismo della ‘delegificazione’, ha demandato la disciplina dell’uso delle terre e rocce, come sottoprodotti, alla fonte regolamentare, autorizzando specificamente il Governo ad adottare la norma secondaria e abrogando l’art. 186 cit.. Tuttavia, in fase di conversione del d.l. 21 giugno 2013 n. 69 (c.d. ‘Decreto del Fare’) è stata operata una rilevante modifica sul regime delle terre e rocce da scavo. Infatti, la l. 9 agosto 2013 n. 98 (pubblicata in G.U. n. 194 del 20 agosto 2013 – Suppl. Ordinario n. 63) ha introdotto un nuovo art. 41 bis nel contesto del d.l. n. 69/2013. Ne è derivato che, quanto all’ambito di applicazione del d.m. n. 161 del 2012, risulta confermata l’interpretazione iniziale che vedeva la complessa disciplina dettata dal decreto limitata alla gestione dei materiali da scavo che derivano dalle “grandi opere”. Infatti, in forza dell’art. 184 bis, comma 2 bis, d.lgs. n. 152 del 2006 – di cui all’art. 41, comma 2, d.l. n. 69/2013 – l’ambito di applicazione del Regolamento in esame è circoscritto esplicitamente solo alle terre e rocce da scavo che provengono da attività o opere soggette a valutazione d’impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale. Per quanto appena rilevato, dunque, deve essere dichiarato improcedibile il terzo motivo di ricorso, con cui si censurava l’illegittimità dell’assimilazione, operata dal decreto per cui è causa, dei piccoli cantieri a quelli di medio-grande dimensione con riferimento alla gestione dei materiali da scavo.
III – Deve quindi individuarsi l’ambito di applicazione del Regolamento oggetto di censura, per quanto concerne i materiali da scavo a cui esso deve intendersi riferito. Ai sensi dell’art. 2, il decreto ministeriale si applica alla gestione dei materiali da scavo. Ne risultano esclusi i rifiuti provenienti direttamente dall’esecuzione di interventi di demolizione di edifici o altri manufatti preesistenti che sono soggetti alle specifiche disposizioni in materia di gestione dei rifiuti. Secondo la definizione di cui all’art. 1 del decreto, sono «materiali da scavo»: il suolo o sottosuolo, con eventuali presenze di riporto, derivanti dalla realizzazione di un’opera quali, a titolo esemplificativo: scavi in genere (sbancamento, fondazioni, trincee, ecc.); perforazione, trivellazione, palificazione, consolidamento, ecc.; opere infrastrutturali in generale (galleria, diga, strada, ecc.); rimozione e livellamento di opere in terra; materiali litoidi in genere e comunque tutte le altre plausibili frazioni granulometriche provenienti da escavazioni effettuate negli alvei, sia dei corpi idrici superficiali chedel reticolo idrico scolante, in zone golenali dei corsi d’acqua, spiagge, fondalilacustri e marini; i residui di lavorazione di materiali lapidei (marmi, graniti, pietre, ecc.) anche non connessi alla realizzazione di un’opera e non contenenti sostanze pericolose (quali ad esempio flocculanti con acrilamide o poliacrilamide).
Per quanto qui interessa, deve precisarsi, peraltro, che il d.m. in esame non può che essere inteso coerentemente con i limiti di delega di cui all’art. 49, d.l. n. 1 del 2012, nella versione modificata in sede di conversione, che – come detto – prevede che esso “stabilisce le condizioni alle quali le terre e rocce da scavo sono considerate sottoprodotti ai sensi dell’articolo 184-bis del decreto legislativo n. 152 del 2006” . Peraltro, l’interpretazione sistematica della disciplina – dalla quale secondo i criteri ermeneutici non si può prescindere – richiede che la norma sia letta unitamente all’art. 185, d.lgs. n. 152 del 2006, che dispone da un lato l’esclusione della disciplina sui rifiuti sia con riferimento al “suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato” (comma 1 lett. c) con conseguente inapplicabilità dell’art. 184 bis, che precede, al “suolo escavato non contaminato e altro materiale allo stato naturale, utilizzati in siti diversi da quelli in cui sono stati escavati” (comma 4) che, però debbono “essere valutati ai sensi, nell’ordine, degli articoli 183, comma 1, lettera a), 184-bis e 184-ter”.
Ne deriva che il d.m. in esame trova applicazione unicamente al materiale da scavo utilizzato in siti diversi da quelli in cui sono stati escavati (secondo la definizione di “sito di destinazione” come “diverso dal sito di produzione” di cui all’art. 2, comma 1, lett. n) del medesimo decreto) pur dopo l’eliminazione nella versione definitiva dell’espresso richiamo all’art. 185, comma 4 menzionato, fatta eccezione per quanto previsto dall’art. 5, comma 4, che però riguarda una fattispecie ben diversa, che non rientra nelle previsione di cui all’art. 185 comma 1 lett. c) del Codice, perchè riferita a siti “in cui, per fenomeni naturali, nel materiale da scavo le concentrazioni degli elementi e composti di cui alla Tabella 4.1 dell’allegato 4, superino le Concentrazioni Soglia di Contaminazione di cui alle colonne A e B della Tabella 1 dell’allegato 5 alla parte quarta del decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modificazioni”.
Per le osservazioni sin qui svolte, deve essere dichiarato inammissibile (e non improcedibile) per difetto di interesse il nono motivo di ricorso, che si fonda sull’errata prospettazione di parte ricorrente, secondo la quale il Regolamento avrebbe inteso disciplinare i materiali da riporto che rimangono in sito. Dalla corretta interpretazione del decreto gravato – peraltro evidenziata dalle Amministrazioni – secondo la lettura coordinata con la legge delega e le norme contenute nel d.lgs. n. 152 del 2006, infatti, non si configura un interesse della parte istante a gravare la disciplina regolamentare.
IV – Nello stesso senso deve essere dichiarato inammissibile il dodicesimo motivo di ricorso, che è teso a censurare l’illegittima inclusione nella nozione di materiale da scavo dei residui di lavorazione di materiali lapidei non contenenti acrilamide o poliacrilamide, poiché – come altresì posto in evidenza dalla difesa erariale – i residui della lavorazione costituiscono materiale diverso dai residui dell’ “estrazione”, ai sensi di quanto disposto dall’art. 186, comma 7 ter, d.lgs. n. 152 del 2006. L’ordinamento distingue, infatti, tra rifiuti delle industrie estrattive, di cui al d.lgs. n. 117 del 2008 e ss.mm.ii. in forza del quale è prevista per la gestione l’elaborazione di un piano di rifiuti e residui di lavorazione di materiali lapidei, per i quali il piano di utilizzo è disciplinato dall’art. 184 bis del d.lgs. 152 del 2006, come modificato dall’art. 41, comma 2, d.l. n. 69 del 2013 e dall’art. 8 bis, d.l. n. 43 del 2013, convertito con la l. n. 71 del 2013, nonché dal d.m. n. 161 in argomento. L’art. 41 bis d.l. 69 del 2013 (“Decreto del Fare”), introdotto dalla l. di conversione n. 98 del 2013, ha innovato, peraltro, con riferimento alla dimensione dei cantieri – come precedentemente evidenziato – la precedente normativa di settore disponendo i requisiti e le condizioni per operare con le terre e rocce da scavo provenienti da attività o opere non soggette a valutazione d’impatto ambientale (VIA) o ad autorizzazione integrata ambientale (AIA). Ne consegue che, anche per tale motivo deve ritenersi non sussistere l’interesse all’impugnazione da parte degli istanti, con riguardo ai materiali lapidei, essendo la norma regolamentare gravata tesa a disciplinare un ambito diverso da quello individuato in ricorso.
V – Per quanto attiene poi al tema del materiale da riporto (materiali eterogenei utilizzati per la realizzazione di riempimenti e rilevati, non assimilabili per caratteristiche geologiche e stratigrafiche al terreno in situ, all’interno dei quali possono trovarsi materiali estranei), esso era stato già oggetto di diversi interventi legislativi. L’art. 3, d.l. n. 2 del 2012, convertito in l. n. 28 del 2012 aveva sostanzialmente equiparato i riporti al suolo e, quindi, ad una matrice ambientale vera e propria non costituente rifiuto. L’Allegato 9 al D.M. n. 161/2012, poi, aveva introdotto specifiche condizioni per il riutilizzo dei riporti scavati, prevedendo che la componente antropica presente non possa essere superiore al 20%. Tale previsione costituisce oggetto delle censure di cui ai motivi 10 e 11 del ricorso. Il terreno di riporto oggetto di scavo, per quanto qui d’interesse, prima dell’ulteriore intervento del legislatore del 2013, poteva essere gestito come sottoprodotto nei limiti di quanto previsto dal D.M. n. 161 del 2012. Il d.l. n. 69 del 2013, più volte menzionato, è tuttavia, intervenuto sul punto, modificando sostanzialmente l’art. 3 del D.L. n. 2 cit.. La nuova formulazione dell’art. 3 è la seguente:
1. Ferma restando la disciplina in materia di bonifica dei suoli contaminati, i riferimenti al “suolo” contenuti all’art. 185, commi 1, lett. b) e c), e 4, del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, si interpretano come riferiti anche alle matrici materiali di riporto di cui all’Allegato 2 alla Parte IV del medesimo decreto legislativo, costituite da una miscela eterogenea di materiale di origine antropica, quali residui e scarti di produzione e di consumo, e di terreno, che compone un orizzonte stratigrafico specifico rispetto alle caratteristiche geologiche e stratigrafiche naturali del terreno in un determinato sito e utilizzati per la realizzazione di riempimenti, di rilevati e di reinterri.
2. Ai fini dell’applicazione dell’art. 185, comma 1, lett. b) e c), del D.Lgs. n. 152 del 2006, le matrici materiali di riporto devono essere sottoposte a test di cessione effettuato sui materiali granulari ai sensi dell’art. 9 del decreto del Ministro dell’ambiente 5 febbraio 1998, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale 16 aprile 1998, n. 88, ai fini delle metodiche da utilizzare per escludere rischi di contaminazione delle acque sotterranee e, ove conformi ai limiti del test di cessione, devono rispettare quanto previsto dalla legislazione vigente in materia di bonifica dei siti contaminati.
3. Le matrici materiali di riporto che non siano risultate conformi ai limiti del test di cessione sono fonti di contaminazione e come tali devono essere rimosse o devono essere rese conformi al test di cessione tramite operazioni di trattamento che rimuovono i contaminanti o devono essere sottoposte a messa in sicurezza permanente utilizzando le migliori tecniche disponibili e a costi sostenibili che consentono di utilizzare l’area secondo la destinazione urbanistica senza rischi per la salute. 3 bis. Gli oneri derivanti dai commi 2 e 3 sono posti integralmente a carico dei soggetti richiedenti le verifiche ivi previste”. Al di là, dunque, dei dubbi interpretativi sulla portata della nuova disciplina legislativa, in ordine alla normativa applicabile nel caso in cui il riporto non risulti conforme al test di cessione, appare con evidenza che il dettato regolamentare gravato, ne risulta profondamente inciso. Di tal ché non può che accedersi alla domanda di dichiarazione di improcedibilità, per sopravvenuto difetto di interesse, in ragione della modifica del quadro normativo, rivolta da parte ricorrente.
VI – Così definito, dunque, l’ambito di interesse della presente controversia, deve passarsi all’esame del merito dei motivi di ricorso per i quali permane l’interesse. Con la prima doglianza, gli istanti censurano le disposizioni contenute negli artt. 5 commi 7 e 8, 8 comma 3, 12 commi 4 e 5 e 15 comma 3 nella parte in cui introducono ipotesi di cessazione della qualificazione di sottoprodotto connesse alla non corretta esecuzione delle procedure di riutilizzo. In particolare, le disposizioni regolamentari impugnate prescrivono che la qualifica di ‘sottoprodotto’ venga meno nel caso di “violazione degli obblighi assunti nel Piano di Utilizzo” “con conseguente obbligo di gestire il predetto materiale come rifiuto ai sensi e per gli effetti dell’articolo 183, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 152 del 2006 e successive modificazioni”. Il motivo è infondato. Invero, le norme costituiscono applicazione di quanto disposto dalla fonte primaria, che espressamente dispone condizioni ai fini della riconducibilità dei materiali alla categoria dei ‘sottoprodotti’. Prevede, infatti, l’art. 184 bis T.U. Ambiente (introdotto dall’art. 12, d.lgs. n. 205 del 2010) che: “1. È un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”. La stessa disposizione prescrive ai commi successivi che “possono essere adottate misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti”, con uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, in conformità a quanto previsto dalla disciplina comunitaria. Peraltro, come già sopra evidenziato, la portata della disciplina di cui al Regolamento in esame, risulta limitata dall’intervento operato dall’art. 41, comma 2, l. n. 98 del 2013 solo alle terre e rocce da scavo che provengono da attività o opere soggette a valutazione d’impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale.
VII – Con il secondo motivo di gravame, la parte ricorrente censura l’art. 5 comma 1 e l’art. 8, comma 1 del Regolamento, in forza dei quali il Piano di Utilizzo (P.d.U.) deve essere presentato almeno 90 giorni prima dell’inizio dei lavori o dell’attuazione di una modifica sostanziale di un P.d.U. già presentato per contrasto con le disposizioni del d.P.R. n. 380 del 2001 in tema di procedimenti semplificati (D.I.A. o S.C.I.A.). In vero, lungi dal costituire una norma contraddittoria con altre disposizioni dell’ordinamento, come vorrebbero gli istanti, la previsione trova la sua giustificazione nella necessità che il tempo previsto per l’avvio dei lavori non sia inferiore al tempo del procedimento di approvazione del piano da parte delle Autorità competenti.
Peraltro, lo svolgimento dello specifico procedimento in argomento necessario per ottenere l’approvazione dell’utilizzo dei materiali da scavo risulta differente da quello attinente al conseguimento dei titolo edilizio. Nella specie, dunque, non si tratta di verificare l’eventuale corrispondenza dei due procedimenti eventualmente attivati, quanto, piuttosto, di una fattispecie riconducibile alla applicabilità di quanto disposto dall’art. 7, d.P.R. n. 160 del 2010, che per l’appunto prevede, in termini di maggiore celerità dell’azione dell’amministrazione, dell’efficienza e buon andamento della p.a., che “(omissis) 3. Quando è necessario acquisire intese, nulla osta, concerti o assensi di diverse amministrazioni pubbliche, il responsabile del SUAP può indire una conferenza di servizi ai sensi e per gli effetti previsti dagli articoli da 14 a 14-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241, ovvero dalle altre normative di settore, anche su istanza del soggetto interessato o dell’Agenzia. La conferenza di servizi è sempre indetta nel caso in cui i procedimenti necessari per acquisire le suddette intese, nulla osta, concerti o assensi abbiano una durata superiore ai novanta giorni ovvero nei casi previsti dalle discipline regionali. Scaduto il termine di cui al comma 2, ovvero in caso di mancato ricorso alla conferenza di servizi, si applica l’articolo 38, comma 3, lettera h), del decreto-legge. (omissis) 6. Il provvedimento conclusivo del procedimento, assunto nei termini di cui agli articoli da 14 a 14-ter della legge 7 agosto 1990, n. 241, è, ad ogni effetto, titolo unico per la realizzazione dell’intervento e per lo svolgimento delle attività richieste. (omissis)”.
VIII – Con il quinto motivo di gravame, gli istanti censurano, altresì, il complesso di verifiche disposte dal Regolamento ai fini del riutilizzo dei materiali di scavo provenienti dai siti sottoposti a bonifica o a risanamento ambientale, in particolare disponendo (art. 5, comma 4) l’accertamento che “i valori riscontrati per tutti gli elementi e i composti di cui alla Tabella 1 dell’allegato 5, alla parte quarta del decreto legislativo n. 152 del 2006, non superano le Concentrazioni Soglia di Contaminazione di cui alle colonne A e B della medesima Tabella 1 sopra indicata, con riferimento alla specifica destinazione d’ Piano di Utilizzo”. Tale previsione, come già posto in evidenza con riferimento all’esame del primo gruppo di censure, corrisponde ad una specifica prescrizione del legislatore, che ha posto condizioni specifiche alla possibilità di qualificare il materiale come sottoprodotto (art. 184 bis cit.). Peraltro, deve condividersi quanto esposto dalla difesa erariale, laddove evidenzia la coerenza della disposizione uso urbanistica del sito di destinazione indicata dal gravata con i principi generali in materiale ambientale.
Il Legislatore (T.U. Ambiente – art. 2) ha inteso dichiarare esplicitamente l’obiettivo perseguito nella “promozione dei livelli di qualità della vita umana” da attuarsi attraverso “la salvaguardia e il miglioramento delle condizioni dell’ambiente”, attraverso la “conservazione, salvaguardia, miglioramento e utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, anche al fine di promuovere la qualità della vita umana e lo sviluppo sostenibile”. Con il d.lgs 16 gennaio 2008, n. 4, c.d. “secondo Correttivo”, è stato modificato il titolo della Prima Parte del Codice, denominata ora non più solo “disposizioni comuni” ma anche “principi generali e sono stati introdotti alcuni articoli (da 3 bis a 3 sexies) al fine di rendere evidente la portata generale degli stessi a tutta la ‘materia’ della tutela dell’ambiente. Con tali norme, peraltro, sono recepiti e rafforzati alcuni principi di derivazione comunitaria in materia di tutela dell’ambiente. Per i profili di interesse, vale ricordare:
– i principi di “prevenzione” e di “precauzione” (art. 3 ter), in base ai quali occorre evitare di creare rischi per l’ambiente, e solo in subordine cercare di arginare quelli esistenti o quelli che si dovessero verificare; – il principio “chi inquina paga” (art. 3 ter), che obbliga all’integrale ripristino dello “status quo ante” dell’ambiente;
– il principio dello “sviluppo sostenibile” (art. 3 quater), in base al quale la p.a. deve dare priorità alla tutela ambientale; Ed ancora, specificamente, per gli aspetti che qui vengono in esame, va menzionato che anche la Parte IV del d.lgs. n. 152, relativa ai rifiuti, contiene alcuni principi, ed in particolare:
i criteri di priorità nella gestione dei rifiuti di cui all’art. 179, in forza dei quali la gestione dei rifiuti deve avvenire nel rispetto di una precisa gerarchia, in modo tale da favorire la riduzione della produzione e della pericolosità dei rifiuti e di incentivarne il riciclaggio e il recupero per ottenere prodotti, materie prime, combustibili o altre fonti di energia, correlatamente alla nuova regola del principio di prossimità e di autosufficienza, di cui agli artt. 182, comma 3 e 182 bis, d.lgs. n. 152 cit..
Ne consegue che le condizioni prescritte dal Regolamento, oltre che trovare la propria legittimazione nella fonte primaria, rispondono precipuamente alle indicazioni e ai principi dettati dal legislatore, come sopra descritti, nel prevedere che al fine del conseguimento della possibilità di utilizzare il materiale da scavo come ‘sottoprodotto’, sia assicurato che gli elementi ed i composti contenuti nei materiali predetti proveniente da siti sottoposti a bonifica o a ripristino ambientale rispettino i valori-limite stabiliti dalle C.S.C., sì da non divenire pregiudizievoli per la salute umana e l’ambiente. .
IX – Censurano, poi, gli istanti (VI motivo) il Regolamento, laddove, nel prevedere il riutilizzo del materiale da scavo proveniente da siti con fondo naturale di contaminazione, non individua i termini entro i quali l’ARPA deve esprimersi sul piano di accertamento dei valori di fondo, poiché tale norma verrebbe ad incidere sul principio di certezza dei tempi di conclusione del procedimento (art. 5, comma 4). Orbene, nella specie, la norma è riferita ad un caso specifico e residuale rispetto a quanto disposto dai commi 2, 3 e 5 del medesimo articolo. Deve, pertanto, rilevarsi che la mancanza di previsione del termine di conclusione del procedimento non ne comporta l’assenza, atteso che esso va individuato in base alle norme generali sul procedimento amministrativo.
X – Né tanto meno ha pregio il settimo motivo di gravame, teso a porre in luce l’asserita sproporzione del Regolamento nel prescrivere il regime di responsabilità in caso di utilizzo effettuato da terzi. Secondo quanto già menzionato, infatti, il principio della ‘certezza’ dell’utilizzo dei materiali costituisce una delle condizioni prescritte dall’art. 184 bis, T.U. Ambiente. La norma regolamentare ne fa, dunque, corretta applicazione. Sul punto vale ricordare quanto affermato dalla Suprema Corte in materia (sentenza n. 37508 del 2003), secondo la quale alla necessità che il prodotto sia riutilizzato si affianca, in linea con la giurisprudenza comunitaria, l’occorrenza che tale riutilizzo deve essere certo e non solo possibile.
Ed, ancora, la Corte di Cassazione penale Sez. III, richiamando il dettato dell’art. 14 della L. n. 178/2002 e la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europea ‘ Palyn Granit Oy C- 114/01’, ha affermato che, affinché “i rifiuti delle attività di demolizioni edili che costituiscono rifiuti speciali ai sensi dell’art. 7, comma 3, lett. b) del D. Lgs. 22/97, non vengano considerati rifiuti è necessario che vi sia certezza in ordine: a) alla individuazione del produttore e/o detentore dei beni e/o sostanze de quibus, b) alla provenienza degli stessi; c) alla sede ove sono destinati; d) al riutilizzo dei medesimi in ulteriore ciclo produttivo. Tale principio risulta ribadito nella sentenza della Cassazione civile, Sez. I, 25 agosto 2006 n. 18556. Più recentemente, peraltro, quanto alla qualificazione di ‘sottoprodotto’ la Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 17823 del 11 maggio 2012, ha escluso che i residui prodotti possano essere considerati sottoprodotti ove non ricorrono le condizioni stabilite nella definizione da rinvenirsi nell’art.184 bis del d.lgs. n. 152 cit..
XI – Infine, deve essere respinto l’ulteriore gruppo di censure di cui all’ottavo motivo di ricorso, in cui la parte istante si lamenta delle prescrizioni in tema di documentazione per il trasporto del materiale, in quanto, esse trovano piena corrispondenza nelle disposizioni di carattere generale. Non solo, infatti, anche tale norma regolamentare contribuisce a dare attuazione al principio già richiamato della certezza del riutilizzo, ma, altresì, essa prevede una documentazione equipollente alla scheda di trasporto di cui all’art. 7 bis, d.lgs. n. 286 del 2005, istitutivo della scheda di trasporto e finalizzato ad assicurare la tracciabilità della merce.
XII – Per le considerazioni sin qui svolte, il ricorso deve essere dichiarato in parte inammissibile ed in parte improcedibile, secondo quanto precisato, e per il resto deve essere respinto. Tuttavia, in ragione della particolare complessità della fattispecie esaminata, sussistono giusti motivi per compensare le spese di lite tra le parti.
P.Q.M
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Bis) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, in parte lo dichiara inammissibile, in parte improcedibile ed, in parte lo respinge, secondo quanto indicato in motivazione. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 febbraio 2014 con l’intervento dei magistrati:
- Antonino Savo Amodio, Presidente
- Antonio Vinciguerra, Consigliere
- Solveig Cogliani, Consigliere, Estensore
DEPOSITATA IN SEGRETERIA Il 10/06/2014 IL SEGRETARIO (Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)