A cura dell’Avv. Xavier Santiapichi
Si avvia alla conclusione l’iter di approvazione del DPCM attuativo dell’articolo 22, comma 2, del Codice dei contratti pubblici (D.lgs. 50/2016 nel testo modificato dal art. 12, comma 1, lett. a) e b), D.Lgs. 19 aprile 2017, n. 56) (disponibile QUI). E’ ormai conclusa la fase di confronto parlamentare presso le Commissioni competenti, come pure è stato emesso il Parere del Consiglio di Stato (disponibile QUI). Da quanto risulta, manca solo la registrazione in Corte dei Conti e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Anche Lexitalia rilancia l’articolo a questo link.
Ricordiamo che l’articolo 22, comma 2 del Codice dei contratti pubblici ha previsto che, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, con la concertazione del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e del Ministro per i beni e le attività culturali, per i soli interventi avviati dopo la data di entrata dell’emanando DPCM, sono fissati i criteri per l’individuazione delle opere sottoposte al sub-procedimento del “dibattito pubblico” per le grandi opere e sono definite le modalità di svolgimento, il termine di conclusione della medesima procedura e – anche se il testo della delega non lo scrive – gli effetti del “dibattito”.
Da un primo momento in cui il testo prevedeva l’applicazione limitata alle infrastrutture pubbliche strategiche, si è passati all’inclusione, anche su segnalazione di alcune associazioni ambientaliste e grazie alle indicazioni della Commissione Ambiente della Camera, anche degli impianti di distribuzione e produzione di energia, seppure di grandi dimensioni.
Si tratta di un modello di democrazia partecipativa destinato agli interventi maggiori (elettrodotti oltre 40 km; strade ed autostrade che prevedano un costo stimato superiore a 500 mln. di euro, etc.) mutuato, tendenzialmente, dall’ordinamento francese, con l’obiettivo di rendere trasparente il confronto con i territori sulle opere pubbliche e di interesse pubblico, attraverso una procedura che consente di informare e far partecipare le comunità interessate, con garanzie sul coinvolgimento, risposte adeguate e tempi chiari. L’istituto è stato fortemente sostenuto negli anni da alcuni esperti (su tutti vale la pena ricordare le pubblicazioni ed i convegni della Fondazione Astrid).
Mentre tuttavia nel sistema francese (ma anche in alcuni paesi degli Stati Uniti ed in molte altre realtà) il “dibattito pubblico” per le grandi opere si svolge all’interno delle procedure di valutazione ambientale, la scelta del legislatore italiano è invece quella di prevedere una nuova fase, preliminare alla VIA, non destinata all’investigazione delle tematiche ambientali, ma voluta per approfondire le ragioni socio-economiche dell’opera. Si vuole cioè alleggerire la sindrome NIMBY (acronimo inglese per Not In My Back Yard, lett. “non nel mio cortile”), prevedendo che l’opera effettivamente progettata abbia un livello di accettabilità più elevata dal territorio.
Quindi nel modello italiano, in sede di dibattito pubblico, oggetto di esame non sono gli “impatti ambientali”, ma gli aspetti socio-economici connessi alla realizzazione dell’opera. Non è un confronto tecnico, ma politico, con i territori.
Il problema di coerenza con le altre disposizioni procedimentali
La lettura del testo trasmesso alle Camere evidenzia un problema di scarso collegamento con gli istituti e le disposizioni che riguardano il procedimento di autorizzazione/approvazione di opere pubbliche/d’interesse pubblico. E così va intanto evidenziata l’incoerenza rispetto alla Riforma “Madia” e, in particolare, ai decreti applicativi; sia rispetto al D.P.R. 12 settembre 2016, n. 194 (Regolamento recante norme per la semplificazione e l’accelerazione dei procedimenti amministrativi, a norma dell’articolo 4 della legge 7 agosto 2015, n. 124) sia, più in particolare, rispetto al D.Lgs. 30 giugno 2016, n. 127, (Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi, in attuazione dell’articolo 2 della legge 7 agosto 2015, n. 124).
Quest’ultima disposizione riforma la conferenza di servizi prevedendo – tra l’altro – la “Conferenza istruttoria” e, ancor più vicina al dibattito pubblico, la “Conferenza preliminare”.
Il nuovo Regolamento sul funzionamento della conferenza di servizi ha infatti introdotto un istituto – questa “conferenza preliminare” – che sta ottenendo un buon successo nella prassi amministrativa. Per progetti di particolare complessità e per gli insediamenti produttivi di beni e servizi, è data facoltà (e non obbligo) all’amministrazione procedente, su richiesta motivata dell’interessato, di indire una conferenza preliminare finalizzata a indicare al richiedente, prima della presentazione di una istanza, le condizioni per ottenere i necessari atti di assenso. La conferenza preliminare si svolge secondo le disposizioni dell’articolo 14-bis della legge sul procedimento amministrativo, con abbreviazione dei termini.
Gli enti coinvolti sono chiamati sin da subito ad esprimere le proprie determinazioni.
La novità maggiore è l’effetto conformativo obbligatorio che produce il verbale della Conferenza; dispone la norma che le determinazioni espresse in sede di conferenza preliminare possono essere motivatamente modificate o integrate solo in presenza di significativi elementi emersi nel successivo procedimento, anche a seguito delle osservazioni degli interessati sul progetto definitivo.
In sede di conferenza preliminare oggetto del confronto – che in realtà è limitato alle Amministrazioni interessate (ma bastava ampliare la partecipazione anche all’esterno) – l’approfondimento riguarda un livello di progettazione embrionale (lo studio di fattibilità) che appare analogo a quanto previsto dallo schema di DPCM (che non parla di “Studio di fattibilità” ma di “Dossier di progetto”).
Ancor più evidenti le discrasie rispetto al Codice dell’Ambiente. Ammesso e non concesso che la scelta di anticipare il Dibattito pubblico ante-VIA sia davvero efficace ed al contrario non rappresenti un aggravio procedurale in un paese notoriamente privo di grandi infrastrutture, si sarebbe potuto quantomeno unificare la fase di consultazione del pubblico dei due sub-procedimenti.
Invece l’unica correlazione (tra dibattito pubblico e valutazioni ambientali) consegue alla lettura dell’articolo 9 comma 5 del DPCM, che dispone l’obbligo di allegare i risultati delle consultazioni (non quindi la sintesi dell’esito) all’istanza di VIA.
Le contraddizioni (o aggravi procedurali) sono ancor più evidenti confrontando il Dibattito pubblico di cui al DPCM con l’Inchiesta pubblica (normata dall’art. 24bis del Codice dell’Ambiente). Le due procedure sono (sostanzialmente) sovrapponibili. E nel caso di VIA nazionale (per le VIA regionali esiste un norma di raccordo al comma 2 del cit. 24bis) si potrebbero svolgere tutte e due, con ovvio aggravio di tempi.
Aggravio procedurale o strumento efficace anti-NIMBY?
Il Governo non ha riconosciuto agli esiti del Dibattito alcun effetto vincolante. Nello schema di DPCM si dice infatti che “…le Amministrazioni interessate TENGONO CONTO del dossier conclusivo per le successive fasi di valutazione”.
C’è allora da chiedersi a cosa davvero serva l’istituto. Le pur comprensibili ragioni di diffusione sul territorio della scelta progettuale non bastano a giustificare il potenziale rallentamento dell’iter di approvazione di un intervento, poiché le risultanze del confronto non obbligano il proponente ad adeguarsi o le amministrazioni a rinunciare all’intervento.
La Commissione istituita con il DPCM non è minimamente paragonabile alla Commission National du Débat Public (CNDP) del modello francese. Mentre la nostra Commissione raccoglie documenti di cui qualcuno, in sede di progettazione, dovrà “tenere conto” e svolge attività di monitoraggio, CNDP è stata classificata come organo amministrativo indipendente ed il suo esame non riguarda solo le caratteristiche principali del progetto ed i suoi obiettivi ma anche la sua opportunità, ovvero la fattibilità dell’intervento e gli effettivi benefici dell’opera stessa.
Oltretutto gran parte delle argomentazioni del dibattito pubblico saranno verosimilmente di natura ambientale, e dunque la sede elettiva per il suo svolgimento dovrebbe essere il Ministero dell’Ambiente, anche al fine di coordinare tale nuovo strumento con la eventuale programmazione derivante dalla VAS (o – se questa manchi – per promuoverla) ovvero in sede VIA.