Terre e rocce da scavo: come (e da quando) opera il divieto di “stabilizzazione a calce”

Pubblicato il 17-11-2017
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A cura dell’Avv. Xavier Santiapichi

Con l’entrata in vigore del nuovo Decreto sulla gestione delle terre e rocce da scavo (si veda il presente link per la sintesi delle misure) il legislatore semplifica ulteriormente l’iter autorizzatorio relativo al riutilizzo in situ dei materiali scavati, con l’intento di accelerare la realizzazione di infrastrutture necessarie al nostro paese.

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Va ricordato che il Codice dell’Ambiente (D.lgs. 152/2006 e smi.) stabilisce che è un sottoprodotto, e non un rifiuto, qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:

  • a)  la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
  • b)  è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
  • c)  la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
  • d)  l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.

Quanto al terreno scavato il Codice precisa che si considera sottoprodotto (quindi immediatamente utilizzabile) e non rifiuto “il suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato”.

In sintesi sul punto, è quindi possibile riutilizzare il terreno scavato nelle aree di cantiere a condizione che: (a) il terreno venga riutilizzato allo stato naturale (art. 185 co. I lett c) ovvero (b) si proceda a trattarlo (ma solo) con una “normale pratica industriale”, (art. 184 bis co. I lett. c).

Sulla disciplina delle terre è poi intervenuto il DM 161 che, abrogando l’art. 186 dello stesso Codice (questo effetto era previsto dalla norma), ha appunto (meglio) disciplinato il riutilizzo stabilendo, tra l’altro, cosa debba intendersi per “normale pratica industriale”.

Il 161 è stato oggi abrogato dal  D.P.R. 13 giugno 2017, n. 120 D.P.R. 13 giugno 2017, n. 120.

La modifica di maggiore impatto economico è nel testo degli allegati, a proposito della definizione – appunto – del concetto di “Normale pratica industriale”; questa attività, a suo tempo spiegata dall’allegato III del DM 161, includeva le attività svolte in gran parte delle grandi infrastrutture lineari in costruzione: “costituiscono un trattamento di normale pratica industriale quelle operazioni, anche condotte non singolarmente, alle quali può essere sottoposto il materiale da scavo, finalizzate al miglioramento delle sue caratteristiche merceologiche per renderne l’utilizzo maggiormente produttivo e tecnicamente efficace (….omissis….) si richiamano le operazioni più comunemente effettuate, che rientrano tra le operazioni di normale pratica industriale:

  • la selezione granulometrica del materiale da scavo;
  • la riduzione volumetrica mediante macinazione;
  • la stabilizzazione a calce, a cemento o altra forma idoneamente sperimentata per conferire ai materiali da scavo le caratteristiche geotecniche necessarie per il loro utilizzo, anche in termini di umidità, concordando preventivamente le modalità di utilizzo con l’ARPA o APPA competente in fase di redazione del Piano di Utilizzo..”.

Proprio la stabilizzazione a calce è un metodo assai discusso e che, secondo alcuni, provocherebbe impatti negativi sull’ambiente. Anche l’UE si è schierata in questo senso. La condizione posta dalla Commissione europea per chiudere il caso EU Pilot 554/13/ENVI è stata, infatti, la soppressione della stabilizzazione a calce nella elencazione positiva delle normali pratiche industriali, come prevista dal già citato allegato 3 dal decreto ministeriale n. 161 del 2012.

Nel nuovo allegato III il trattamento a calce non è più considerato normale pratica industriale.

Tanto premesso, le questioni che si pongono sono almeno due:

  • considerato che l’additivazione di calce (o cemento) per “rinforzare” staticamente dei terreni non rappresenta una “normale pratica industriale” e, quindi, necessità di autorizzazioni ad hoc, trattandosi di “trasformazione” di rifiuto in “sottoprodotto”, bisogna accertare quali siano le relative procedure autorizzative;
  • la questione intertemporale: applicando il principio di precauzione è legittimo sostenere che un intervento già sottoposto al DM 161 ed il cui Piano di utilizzo terre (approvato ma non ancora realizzato) preveda la stabilizzazione a calce delle terre, possa comunque essere realizzato?

Sul primo punto – circa l’iter da seguire per realizzare in situ un impianto di stabilizzazione a calce delle terre scavate – la risposta più corretta va rintracciata applicando l’articolo 208 del Codice dell’Ambiente (D.Lgs. 152/2006 e smi.). La norma dispone che i soggetti che intendono realizzare e gestire nuovi impianti di recupero di rifiuti (e tale deve dirsi l’impianto di additivazione alle terre), devono presentare apposita domanda alla regione, allegando il progetto definitivo dell’impianto e la documentazione tecnica prevista per la realizzazione del progetto stesso dalle disposizioni vigenti in materia urbanistica, di tutela ambientale, di salute, di sicurezza sul lavoro e di igiene pubblica.

Quando poi oggetto di autorizzazione sia un “impianto mobile” – come accade nella maggior parte dei casi – il comma 15 del cit. art. 208 semplifica la procedura, disponendo che, acquisito a monte il provvedimento abilitativo all’esercizio dell’impianto (che ha durata decennale), è possibile dare una (mera) comunicazione di inizio attività della singola campagna. L’interessato, almeno sessanta giorni prima dell’installazione dell’impianto, deve infatti comunicare alla regione nel cui territorio si trova il sito prescelto per lo svolgimento della campagna di attività, le specifiche dettagliate relative all’attività, allegando l’autorizzazione dell’impianto e l’iscrizione all’Albo nazionale gestori ambientali; a questo punto la regione può solo adottare prescrizioni integrative, oppure può vietare l’attività, ma con provvedimento specificamente motivato e solo qualora la campagna non sia compatibile con la tutela dell’ambiente o della salute pubblica.

Va anche detto – per completezza – che ove il progetto preveda una Valutazione di Impatto Ambientale, il rilascio dell’autorizzazione ex art. 208 (sia per gli impianti fissi, sia per i mobili ed, in quest’ultimo caso, sia per l’impianto stesso che per la singola campagna di attività) potrebbe essere accorpata in unico provvedimento. Ma la precisazione contenuta nel (novellato testo) del comma 10 dell’art. 27 sembra opporsi a questa ricostruzione. I provvedimenti che possono essere unificati in ambito VIA sono infatti quelli indicati dal comma 2 dell’articolo e costituiscono quindi un numero chiuso.

Quanto al secondo punto – circa il limite temporale di applicazione tra 161 e 120 – la questione che si pone riguarda la stretta applicazione del principio di precauzione; se la modifica introdotta al concetto di “normale pratica industriale” è frutto di un accertamento di tipo tecnico, dovuto anche alle pressioni della procedura pilot avviata dall’UE, anche lo stesso 161 andrebbe parzialmente disapplicato, vietando – per i progetti già autorizzati, ma non ancora eseguiti – il trattamento.

A questa interpretazione, che creerebbe le condizioni di diverse azioni di annullamento ovvero risarcitorie da parte degli interessati, si oppone la lettura proprio del 120: l’articolo 27 stabilisce che “..i piani e i progetti di utilizzo già approvati prima dell’entrata in vigore del regolamento restano disciplinati dalla relativa normativa previgente”, specificando espressamente che “…. resta fermo che i materiali riconducibili alla definizione di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), del presente regolamento utilizzati e gestiti in conformità ai progetti di utilizzo approvati ai sensi dell’articolo 186 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ovvero ai piani di utilizzo approvati ai sensi del decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela e del territorio e del mare 10 agosto 2012, n. 161, sono considerati a tutti gli effetti sottoprodotti e legittimamente allocati nei siti di destinazione”. Questa precisazione “rinforza” i Piani approvati, confermandone la piena validità.