“Numero chiuso” nelle Università e sindacato giurisdizionale (in particolare sul recente test di accesso a medicina)

Pubblicato il 1-10-2019
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A cura dell’Avv. Gaetano Pecoraro

Come ogni anno, i neo-diplomati guardano con crescente ansia gli esiti delle prove di ammissione alle facoltà a numero chiuso delle Università italiane, e si può quasi sentire la loro voce che sussurra “fateci studiare”, avvertendo come un’ingiustizia la selezione all’accesso, tanto che non pochi sono i ricorsi che vengono periodicamente portati all’attenzione dei giudici amministrativi.

E’ allora, forse, il caso, di fare il punto della situazione sullo “stato dell’arte”.

Per quanto si possa non condividere la selezione all’accesso, occorre subito chiarire che la giurisprudenza italiana e comunitaria ha ormai, da tempo, chiarito che il contingentamento dei posti è astrattamente legittimo, e compatibile sia con la normativa euro-unitaria che costituzionale, con due precisazioni:

  • La selezione all’ingresso è legittima solo con riferimento ai neo-diplomati
  • Il numero dei posti messi a disposizione sia ragionevole.

Circa il primo punto, la Corte costituzionale, con la risalente decisione 383/1998, ha ritenuto compatibile con gli artt. 33-34 Cost. la decisione legislativa di ridurre il numero degli ammessi ad alcuni corsi di studi, alla luce della normativa comunitaria rilevante (78/686/CEE del Consiglio, del 25 luglio 1978; 78/687/CEE del Consiglio, di pari data; 78/1026/CEE del Consiglio, del 18 dicembre 1978; 78/1027/CEE del Consiglio, di pari data; 85/384/CEE del Consiglio, del 10 giugno 1985; 89/594/CEE del Consiglio, del 30 ottobre 1989 e 93/16/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993): per il Giudice delle leggi, in quelle direttiva “si rinviene un preciso obbligo di risultato, che gli Stati membri sono chiamati ad adempiere predisponendo, per alcuni corsi universitari aventi particolari caratteristiche… misure adeguate a garantire le previste qualità, teoriche e pratiche, dell’apprendimento. In tali direttive, invero, non si tratta degli strumenti. Questi sono infatti rimessi alle determinazioni nazionali e il legislatore italiano, come per lo più i suoi omologhi degli altri Paesi dell’Unione, ha per l’appunto previsto la possibilità di introdurre il numerus clausus per tali corsi”.

Tuttavia, recentissima giurisprudenza (cfr. TAR Roma, sent. 19 settembre 2019, n. 11090) ha chiarito come solo per il primo accesso alla facoltà appare ragionevole un accertamento della predisposizione agli studi da intraprendere, mentre per gli studenti già inseriti nel sistema (ovvero, già iscritti in università italiane o straniere) può richiedersi soltanto una valutazione dell’impegno complessivo di apprendimento, come già dimostrato dall’acquisizione dei crediti corrispondenti alle attività formative compiute. Con la conseguenza che, per il trasferimento, sia in ambito nazionale che con provenienza da università straniere, l’ammissione agli studi universitari si pone come requisito pregresso, diviene irrilevante in quanto superato dal percorso formativo-didattico già seguito in ambito universitario (che deve, comunque, essere oggetto di rigorosa valutazione);

E ciò anche alla luce del dato, di comune esperienza, che la difficoltà di questa tipologia di studi finisce per “sfoltire”, nel corso degli anni, il numero degli immatricolati, creando disponibilità di posti per i quali non ci sarebbe ragione di lasciare scoperti, non solo per il legittimo soddisfacimento di interessi costituzionalmente tutelati, ma anche nell’interesse pubblico ad un livello qualitativo e quantitativo di personale sanitario, in grado di soddisfare le esigenze della popolazione.

Tale argomentazione consente di affrontare l’ulteriore quesito più volte sollevato nelle Aule di giustizia, relativo al numero di posti, che deve tener conto non solo della capacità ricettiva degli Atenei, ma anche della prevista carenza dei medici (cfr. TAR Roma, sent. 16 settembre 2014, n. 9683), con la precisazione che la fissazione di una soglia minima di punteggio per i candidati extra-comunitari parrebbe non essere “orientata ad incrementare la selezione in sé considerata, ma ad escludere solo i candidati con un bagaglio culturale non idoneo nemmeno ad iniziare la fase di studio universitario”, con conseguente illegittimità di quella clausola qualora applicabile “anche nell’ipotesi di mancata integrale copertura dei posti programmati” (TAR Roma, sent. 27 dicembre 2017, n. 12648).

Molto più articolata e variegata è la giurisprudenza che si è formata intorno alle problematiche afferenti le concrete modalità di somministrazione dei test, e di correzione, tanto da essere stata investita l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con la propria decisione 20 novembre 2013, n. 26 ha richiamato l’attenzione sull’importanza da attribuirsi all’anonimato delle prove selettive.

Trattasi di un criterio da tenere in massima considerazione, costituendo il diretto portato dei principi costituzionale di uguaglianza, buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, che deve operare le proprie valutazioni senza lasciare alcuno spazio a rischi di condizionamenti esterni e dunque garantendo la par condicio tra i candidati.

L’esigenza dell’anonimato si traduce infatti a livello normativo in regole che tipizzano rigidamente il comportamento dell’Amministrazione imponendo una serie minuziosa di cautele e accorgimenti prudenziali, inesplicabili se non sul presupposto dell’intento del Legislatore di qualificare la garanzia e l’effettività dell’anonimato quale elemento costitutivo dell’ interesse pubblico primario al cui perseguimento tali procedure selettive risultano finalizzate.

Per il Supremo Consesso della Giustizia amministrativa, la violazione dell’anonimato da parte della Commissione nei pubblici concorsi comporta una illegittimità da pericolo c.d. astratto ( cfr. in termini VI sez. n. 3747/2013) e cioè un vizio derivante da una violazione della presupposta norma d’azione irrimediabilmente sanzionato dall’ordinamento in via presuntiva, senza necessità di accertare l’effettiva lesione dell’imparzialità in sede di correzione.

Nel caso sottoposto all’attenzione dell’Adunanza Plenaria era accaduto che la Commissione aveva fatto annotare sull’elenco alfabetico dei candidati, accanto al nome di ciascuno di essi, il codice alfanumerico CINECA riservato a lui attribuito, codice la cui funzione era appunto quella di consentire solo ex post l’abbinamento della scheda anagrafica con la prova corretta.

Se negli intenti dell’Amministrazione l’obiettivo perseguito era quello di evitare lo scambio delle prove tra i candidati, non si può negare che, così operando, dopo la conclusione della procedura la Commissione si sia trovata in possesso di un elenco alfabetico in cui al codice (segreto) contrassegnante l’elaborato era inequivocabilmente associato al nome del candidato. Di qui, l’annullamento della procedura.

Selezionateci, ma cum iudicio.